venerdì 1 dicembre 2017
Una casa per proteggere le cameriere africane sfruttate e picchiate dalle famiglie ricche libanesi. A curare e offrire assistenza legale l'associazione Celim, socio Focsiv
Mount Beirut, Libano. Le mani di Sandrine mostrano i segni della violenza subita dal datore di lavoro (Foto Arianna Pagani)

Mount Beirut, Libano. Le mani di Sandrine mostrano i segni della violenza subita dal datore di lavoro (Foto Arianna Pagani)

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A fianco di una umanità ferita e sempre in fuga da una guerra o da un genocidio. Un viaggio nel Libano di 4 milioni di abitanti che accoglie quasi 2 milioni di profughi. Uno sguardo su chi ha dovuto ricominciare da zero avendo lasciato in Siria o in Iraq tutto e spesso anche il marito, o il padre o un fratello: per questo è una speranza soprattutto al femminile. Donne che sanno educare o che si inventano piccole imprenditrici per strappare un sorriso ai loro figli. Un viaggio per conoscere chi, dopo il clamore dell'emergenza, lavora con loro per "essere umani con gli esseri umani".

Inginocchiata a terra Sandrine si contorceva urlando il suo dolore incontenibile. “Haram, haram”, sacrilegio. È una bestemmia comportarsi così. Il video è solo di tre mesi fa, quando gli operatori di Caritas Lebanon hanno incontrato per la prima volta la made, la governante giunta dal Togo questa estate.

Sandrine, il nome è di fantasia, ora aspetta solo che il suo “patron” le paghi il biglietto aereo e i 500 dollari di paga arretrata, come ha stabilito il giudice. “Volevo guadagnare dei soldi per crescere i miei due figli di 10 e 8 anni”, racconta. Una necessità ancora più impellente da quando il marito l’ha lasciata. Una precedente esperienza come domestica all’estero era andata bene. “Così ho parlato ancora con un agente della agenzia che procura domestiche che mi ha proposto il Libano”. È il mercato delle badanti e governanti, che l’alta borghesia libanese “importa” per il 60% dall’Etiopia, ma anche da altri Paesi africani, dalle Filippine e da Bangla Desh e Sri Lanka. Una pratica consolidata, tanto da fare progettare nelle ville della “upper class” la minuscola stanzetta della made, come un accessorio indispensabile a un certo tenore di vita.

“Prima di partire non ho nemmeno parlato dello stipendio”, spiega Sandrine contenta allora di avere trovato un impiego. Chi invece “acquista” una made, - ci sono pure dei cataloghi con le foto per sceglierle meglio - ha solo pretese che troppo spesso diventano violenza. Orari massacranti, il totale isolamento e l’impossibilità, per queste donne, di cercare un’alternativa perché se abbandonano il loro sponsor cadono nell’illegalità: una condizione di facile ricatto che troppo spesso si trasforma in brutale violenze. “Mi picchiavano. Una volta, poi, mi hanno chiusa in bagno e costretta su una sedia con le mani legate dietro la schiena”. Sui polsi ancora si intuiscono i tagli lasciati dalle fascette di plastica. Persino le minacce del figlio hanno piegato la resistenza psichica di Sandrine: “Sono scappata e dopo aver vagato tutta la notte nel bosco la mattina ho visto una chiesa. Sono entrata e ho cominciato a urlare come una pazza. Si, ero impazzita”. “La signora Caterina mi ha trovato nella chiesa e mi ha accompagnato a Caritas Lebanon” che, grazie a un apposito servizio legale, ha avviato una causa.

Sandrine, dopo un ricovero in psichiatria e una adeguata terapia, è stata accolta in un rifugio dall’indirizzo super riservato. L’ostello della ragazze senza volto è stato ricavato quasi tre anni fa in una vecchia scuola in un villaggio sul monte Libano. Il giardino delle made derubate anche del senno, è sostenuto da un progetto che il Celim – socio Focsiv – gestisce grazie a un finanziamento della Cooperazione italiana. Una équipe di 5 operatori (con tanto di psicologa, infermiera, ed educatrici professionali), con una serie di attività riabilitative fa superare alle ragazze in attesa di sentenza la fase di crisi più acuta.

Con Sandrine ora ci sono altre 10 made e due bambini, uno di 3 anni e uno di due mesi. Quasi sempre la diagnosi è depressione che si riesce a superare. Ma mai del tutto. “Anche Dio non può cambiare il passato”, ha scritto su un foglio una delle made nel dormitorio che può ospitare al massimo fino a 20 ragazze. Una lenta attesa di un ritorno a casa cullando un dolore duro come una coltellata nell’anima: “So più di quanto posso dire”, si legge su un foglio, appeso alla parete opposta.

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