sabato 16 marzo 2024
Sulla Piazza Rossa si prepara la manifestazione di lunedì. Le mogli dei soldati vengono tenute alla larga: «Il presidente è scorretto. Non ci dà alcun sostegno. Deve lasciare a chi è competente»
Il Grande Fratello: i monitor nella sede della Commissione elettorale centrale moscovita, con le immagini dei principali seggi

Il Grande Fratello: i monitor nella sede della Commissione elettorale centrale moscovita, con le immagini dei principali seggi - Reuters

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«Vengo a trovare mio figlio Alexeij tutti i giorni». Lyudmila Navalnaya parla poco e a bassa voce. Ma dice tutto con lo sguardo e con movimenti lenti che, più che stanchezza, fanno pensare a una personalità granitica. È passato un mese da quando Navalny, il pericolo numero uno di Putin, è morto in una colonia penale oltre il Circolo Polare Artico, ufficialmente per cause naturali, ufficiosamente ucciso pian piano, perché non sembrasse un assassinio, da un regime carcerario senza pietà. Sono passate due settimane da quel funerale blindato, che le autorità avrebbero voluto “segreto” e che è stato celebrato, seppur con mille restrizioni e minacce, solo grazie alla volontà di una madre che ha sfidato da sola il Cremlino.

Un tira e molla durato nove giorni, quando, finalmente le autorità della colonia penale di Kharp hanno consegnato la salma alla madre. Lyudmila è proprio come appare nel video in cui si rivolgeva a Putin, chiedendogli di poter seppellire il suo Alexeij «in modo umano». Capelli castani, occhiali scuri, vestita interamente di nero. Il cellulare le suona di continuo. Con lei, ci sono altre due persone. Se con i giornalisti parla poco, con chi va a rendere omaggio alla memoria di Navalny è prodiga di pensieri. Stringe loro le mani, li ringrazia, di ferma a parlare. Si fa abbracciare, segno che quel gigante di dignità trae la sua forza anche dall’affetto e dalla stima che circondavano suo figlio. Ogni tanto si siede a fianco al chiosco che vende fiori e corone funebri dentro al cimitero Borisov, alla periferia sud di Mosca e vicino a uno di quei quartieri, come ce ne sono tanti nella capitale, con palazzi alti, tutti uguali.

In centro città, sulla Piazza Rossa, hanno iniziato a montare i varchi di sicurezza per la manifestazione di domani, quando, oltre alla vittoria di Putin, verrà celebrato anche il decimo anniversario dall’annessione della Crimea. I Giardini di Alessandro sono chiusi. E quindi, questo sabato, le mogli dei soldati impegnati in Ucraina non potranno compiere la loro protesta silenziosa settimanale, portando fiori sulla tomba del Milite Ignoto, alla fiamma ardente, per ricordare tutti quegli uomini reclutati per combattere sui campi dell’Ucraina, molti dei quali hanno lasciato le loro mogli vedove. La vittoria si avvicina, tutto deve essere perfetto.

«Sono piena di rabbia – confida via Telegram Katija, una delle organizzatrici ad Avvenire –. Non solo mio marito sta combattendo per il suo Paese e io non so nemmeno dove sia, adesso non mi lasciano più deporre neanche un fiore per ricordare che questi uomini esistono e che noi tutte siamo lasciate al nostro destino. Siamo poche decine di mogli, però evidentemente diamo fastidio lo stesso». Ma le mogli dei soldati sono più compatte e determinate di una prima linea di fanteria e così, su determinati canali, viene detto di recarsi al “Muro del dolore”, il monumento dedicato alle vittime della repressione del regime sovietico, inaugurato nel 2017, messo in una parte del centro in modo tale che non si veda troppo. Intorno è pieno di polizia. Un paio di donne con i fiori in mano si avvicinano con prudenza, ma appena vedono che non c’è nessuno cambiano improvvisamente direzione.

Arriva un altro appello: questa volta l’obiettivo è Park Pobedy, il Parco della Vittoria, un monumentale spazio verde dove si esalta la vittoria della Grande guerra patriottica, come i russi chiamano la Seconda Guerra Mondiale. Il luogo di ritrovo è la fiamma ardente (a Mosca, evidentemente, una non basta) davanti al Museo della Vittoria. Ma ormai le donne dei soldati vanno in ordine sparso. È rimasta solo Olga. La si riconosce dal velo bianco, che distingue chi porta avanti questa protesta silenziosa. Suo marito è in riabilitazione dopo le ferite riportate nel conflitto. Potrebbe non camminare più. La parola guerra non la usa: questa è un’«operazione militare speciale». Ma, appena parla della situazione sua e di tante altre, l’ovale del suo viso cambia espressione: «Il presidente Putin è stato davvero scorretto con noi – esordisce –. Gli abbiamo scritto, abbiamo scritto ad altre autorità, ma nessuno ci ha ascoltato. Ci sono centinaia di donne in questa situazione. Non c’è alcun sostegno per noi. Ogni tanto arriva qualche pacco di grano saraceno o zucchero». Quando le si chiede se non abbia paura a condurre questa protesta, Olga si arrabbia del tutto. «Ma quale protesta? Io penso che questo sia un dovere civico. Un’altra Russia è possibile. Putin e la sua élite se ne devono andare e lasciare il posto alle tante persone competenti nel Paese». Intanto, a mezzogiorno, si vedrà cosa resta della lotta politica di Alexeij Navalny. Il dissidente, prima di morire, aveva chiesto a tutti di presentarsi al seggio alle 12 in punto.

Una protesta silenziosa, fatta soprattutto per fare conoscere persone che la pensano allo stesso modo dove, teoricamente, la polizia dovrebbe faticare a capire faticare a capire chi sia pro o contro Putin. Ma, secondo i media pro Cremlino, ha già votato oltre il 50% degli aventi diritto. Il “Mezzogiorno contro Putin” potrebbe trasformarsi in un fiasco o in un’immensa retata. L’ordine è chiaro: tolleranza zero contro chi vuole rovinare la festa al presidente. Ne sanno qualcosa le decine di moscoviti che hanno ricevuto messaggi su Telegram in cui venivano invitati ad andare a votare «senza provocazioni». Non si sa chi li abbia mandati, ma l’intento di far fallire l’iniziativa è chiaro. Gli attacchi a oltre 29 seggi di venerdì hanno messo in allarme. La presidente della Commissione elettorale centrale, Ella Pamfilova, è stata chiara: le proteste ai seggi sono «assimilabili ad atti di terrorismo».

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