mercoledì 18 giugno 2025
Regole del diritto internazionale tradite, voglia di dominio assoluto di leader autocrati, scarsi margini di negoziato tra le parti: il cortocircuito tra Israele e Iran ci ha fatto piombare nel vuoto
Due ragazzi israeliani sul luogo dell'esplosione di una bomba ad Haifa

Due ragazzi israeliani sul luogo dell'esplosione di una bomba ad Haifa - Ansa

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Accade nelle vicende umane che un ordine abbastanza stabile emerga anche da azioni compiute senza un piano specifico né coordinato. Ma non sempre succede. Benjamin Netanyahu spera nell’esito positivo di lungo periodo della sua azione militare contro l’Iran, anche se non ha, come nel caso dell’invasione di Gaza, un progetto chiaro su ciò che vuole ottenere una volta finita la fase dei combattimenti. O, meglio, ha un sogno – la sparizione tanto di Hamas quanto della teocrazia sciita – che non può avverarsi se non a un prezzo inaccettabile.
Per inquadrare la situazione, è forse utile ribadire che siamo entrati in una fase di totale realpolitik, in cui le regole del diritto internazionale sono oscurate e qualsiasi ruolo degli organismi sovranazionali rimane inesplorato. Se è vero che è stata la stessa Aiea a denunciare la violazione commessa da Teheran nell’arricchimento dell’uranio, la risposta di Tel Aviv è stata unilaterale, anche perché lo Stato ebraico non aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare.
Ovviamente, c’è una questione sostanziale: il regime ha più volte dichiarato di volere distruggere Israele e la disponibilità di ordigni nucleari configura una situazione in cui la difesa è legittima, fino a che non diventa eccessiva (tra le nazioni non diversamente che tra singoli individui). Secondo quanto ha affermato il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, l’aeronautica di Tel Aviv «sta facendo il lavoro sporco per tutti», un pensiero forse condiviso da tanti, sebbene fonti americane abbiano smentito un pericolo imminente tale da giustificare l’offensiva in questo momento.
Gli esperti concordano sul fatto che i raid finora abbiano ritardato (ma non annientato) il programma per la Bomba iraniana di almeno 2-3 anni. I siti di Natanz e Isfahan sono stati seriamente danneggiati; Fordow, scavato nella roccia, resta invece agibile perché protetto dalla montagna in cui è scavato. La sua messa fuori uso richiederebbe le GBU-57, armi che solo gli Stati Uniti possiedono.
Oggi l’Iran è un Paese militarmente indebolito che, dal primo giorno dei raid, ha mostrato di non poter reggere l’urto di una macchina bellica straordinariamente efficiente, capace di infiltrare agenti, corrompere alti gerarchi del regime e prendere di sorpresa le difese con attacchi mirati a infrastrutture ed esponenti di spicco delle forze armate e della comunità scientifica coinvolti nella corsa nucleare.
Quello che ancora non sappiamo è se Teheran abbia la forza di continuare (o, addirittura, intensificare) la rappresaglia sulle città israeliane o dovrà presto aprire a negoziati per ottenere lo stop dei bombardamenti con una serie di importanti concessioni. Sarebbe questa la vittoria (parziale) del premier che ha voluto ostinatamente l’offensiva, con incognite sugli scenari di medio periodo, dato che un Paese lontano più di mille chilometri e che conta un nono della popolazione non può controllare la nazione avversaria e impedirle di realizzare in clandestinità i suoi obiettivi peggiori di vendetta.
Per contenere sul lungo termine gli ayatollah, servirebbe un’alleanza internazionale, che Netanyahu non sembra disposto a costruire, convinto invece di potere ridisegnare il Medio Oriente da solo, attraverso una politica di potenza sotto l’ombrello americano. L’ambiguità e gli ondeggiamenti di Donald Trump complicano ulteriormente il quadro e non danno indicazioni sugli sbocchi della crisi. L’ipotesi di un crollo del regime è largamente speculativa: l’opposizione interna è divisa, le vittime civili stanno rafforzando il nazionalismo interno e le élite al potere restano saldamente vicine ai Pasdaran. Solo l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, che per ora forniscono sostegno logistico e intelligence, potrebbe cambiare la situazione. Ma il presidente Usa è stretto fra le due anime del suo movimento, una più interventista e una ostile al coinvolgimento in un altro conflitto. L’aspirazione della Casa Bianca è di arrivare al cessate il fuoco con un Iran che non possa pretendere molto al tavolo della pace, senza scontentare troppo Vladimir Putin, che di Teheran si è servito finora e non vuole perderla completamente.
Che le ostilità si allarghino ad altri contendenti non pare probabile. Le élite islamiche condannano Israele, ma il loro obiettivo reale è circoscrivere lo scontro ed evitare uno choc petrolifero destabilizzante. Le autorità religiose sunnite e sciite usano toni apocalittici, mentre gli apparati politici restano prudenti. Le piazze negli Stati arabi e islamici in generale sono contro Tel Aviv, non si vede tuttavia la spinta dal basso per un’azione anche solo di boicottaggio.
L’opera di distruzione mirata degli apparati iraniani proseguirà nei prossimi giorni, secondo quanto stabilito da tempo, soprattutto se il costo umano della pioggia di missili nemici non convincerà Netanyahu ad accelerare in una direzione o nell’altra: ovvero intensificare il volume di fuoco per ottenere la capitolazione oppure accettare le sollecitazioni americane per la trattativa da una posizione di superiorità.
Rimane da augurarsi che il bilancio degli uccisi non diventi una variabile indipendente, sacrificando da entrambe le parti vite innocenti oggi per una futura e quanto mai improbabile supremazia che garantisca assetti pacificati domani. La continua carneficina di civili non combattenti a Gaza ci dice che dalla spirale d’odio non si esce senza un progetto per la convivenza credibile e realizzabile. Quand’anche bisogna difendersi, la proporzionalità e le implicazioni future non vanno mai perse di vista, a meno di rassegnarsi alla logica di una violenza senza sbocco e senza alternative.

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