lunedì 23 giugno 2025
Gli esperti insistono: il sito di Fordow era vuoto. Ma a Trump e Netanyahu conviene dire che i danni al programma nucleare sono «monumentali»
L'immagine satellitare dell'impianto nucleare di Fordow dopo l'attacco dei B2 statunitensi

L'immagine satellitare dell'impianto nucleare di Fordow dopo l'attacco dei B2 statunitensi - Reuters

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Distrazione di massa? Un grande bluff? Uno specchietto per le allodole? L’aveva scritto questo giornale pochi giorni prima dall’attacco dei B2 americani che ha provocato “danni monumentali” secondo Trump, reso “impossibile la realizzazione della bomba” secondo il premier israeliano Benjamin Netanyahu. E che, soprattutto, come la polverina mostrata da Colin Powell all’Onu per giustificare l’attacco all’Iraq di Saddam Hussein, nessuno può verificare. Molti esperti di intelligence sapevano che da giorni Fordow era stato svuotato dell’uranio arricchito. Stessa cosa per Isfahan, mentre su Natanz i dubbi permanevano.

Ma il primo campanello d’allarme è arrivato, poche ore dopo lo sgancio delle 14 bombe Gbu-57 “bunker buster” dalla stessa agenzia atomica che, nonostante l’obiettività del suo direttore Rafael Grossi sia traballante, dopo che per cinque giorni non ha smentito Israele che sventolava il rapporto dell’Aiea sull’arricchimento (come la polverina del segretario di Stato americano per l’Iraq) dicendo che gli ayatollah erano pronti fare la bomba. Versione smentita da Grossi appena poche ore prima dei nuovi raid, suscitando le ire di Teheran. L’Aiea, ieri, ha comunque certificato livelli di radiazioni pari a zero nei tre siti colpiti: un dubbio, quando si ha a che fare con uranio arricchito, che soleva tante perplessità. Inoltre dopo le trionfali e reiterate dichiarazioni di Trump, ieri il Pentagono (sia con il segretario Hegseth e sia con il capo di stato maggiore Caine) per onestà intellettuale ha cancellato molte certezze, usando il beneficio del dubbio e seppellendo sotto una profluvie di condizionali la finale e reale efficacia del bombardamento. Preciso, devastante ma probabilmente distruttivo solo per le strutture non per il loro contenuto.
Al limite del sarcasmo, ma fino a un certo punto la reazione degli ayatollah. Sminuendo la portata dei raid, hanno detto che «non si potrà mai distruggere il know-how acquisito in questo anni e che presto tutto ricomincerà». In questa direzione va quindi anche la riunione del Majilis per discutere un disegno di legge sulla sospensione della cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Il primo passo del Parlamento per l’uscita totale da Trattato di non proliferazione: in pratica l’anticamera vera della produzione della bomba come è stato per il Pakistan, (alleato degli americani) e la Corea del Nord legata a filo doppio a Pechino.
Quindi l’attacco ha avuto, almeno su questo non ci sono né dubbi né misteri, una convenienza politica. Una sorta di gigantesco e sanguinoso gioco delle parti, forse. Con protagonisti un premier che rischiava di pagare in un colpo solo tutti i processi in cui è implicato, il fallimento nella liberazione degli ostaggi, i massacri a Gaza e un attacco preventivo contro il nemico di sempre iraniano che si era rivelato non così facile come nelle previsioni. E un “pacificatore,” The Donald, che prima aveva ironizzato sul fatto che neanche quest’anno gli verrà assegnato il Nobel per la Pace e poi ha scatenato la forza dell’esercito più potente del mondo al servizio dell’alleato israeliano e per riaffermare il dominio nel Golfo dell’altro amico saudita. Una amicizia che aveva portato il petrolio, grazie agli uffici di Riad al prezzo più basso da un decennio, per mettere in difficoltà Putin che a quelle condizioni non aveva più risorse “cash” per condurre la guerra in Ucraina. Vantaggio che ora si ritorcerebbe proprio sul tycoon se i Pasdaran chiudessero lo Stretto di Hormuz. L’inganno insomma, come hanno scritto oggi alcuni giornali americani, alla lunga potrebbe non reggere.

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