sabato 28 ottobre 2023
Il Forum che riunisce i familiari dei rapiti e dei dispersi: «Siamo stanchi degli slogan. Il tempo per i nostri cari sta per scadere»
I letti lasciati vuoti dagli ostaggi, sistemati in una piazza di Gerusalemme in segno di protesta

I letti lasciati vuoti dagli ostaggi, sistemati in una piazza di Gerusalemme in segno di protesta - Reuters

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«Quando ho visto una delle madri disperate fare l’appello in televisione, nonostante il costante pericolo dei razzi, sono subito scesa in piazza. Mio figlio poteva essere uno degli ostaggi. Tutti i prigionieri a Gaza sono nostri figli, nostri mariti, nostri genitori», commenta una madre israeliana, che si è aggiunta alle migliaia di cittadini che si sono raccolti ieri accanto al Comitato delle famiglie degli ostaggi.

Sono passate tre settimane dal 7 ottobre. Il Paese, ancora lacerato dal massacro dei kibbutz, si trova ad affrontare un dramma nel dramma: quello dei prigionieri nell’enclave e di un governo che, impegnato nelle operazioni militari nella Striscia, non fa che posticipare l’incontro con le famiglie.

Ieri l’ultimatum. Alle 11.30 locali è stata convocata la stampa israeliana e internazionale di fronte alla Kyria – il quartier generale dell’esercito israeliano – ormai diventato punto di ritrovo del Forum che riunisce i familiari dei rapiti e dei dispersi: «Siamo stanchi degli slogan. Il tempo per i nostri cari sta per scadere. Ci aspettiamo che il primo ministro ci incontri – ha dichiarato concitato uno dei portavoce del Forum – ci guardi negli occhi e ci dia delle risposte: l'intensificarsi dell'operazione militare a Gaza mette in pericolo la sicurezza dei nostri 229 ostaggi».

Hanno chiesto un incontro immediato con il premier Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, minacciando, in caso contrario, l'avvio di proteste contro il governo.

Già alle prime ore del mattino la polizia aveva inizialmente vietato la manifestazione prevista in serata nei pressi della casa del premier a Cesarea, poi ritrattando: «Nonostante la situazione di emergenza dovuta alla guerra, sarà possibile organizzare proteste pur se nel rispetto della legge e dalle condizioni di sicurezza stabilite dal Comando del Fronte interno».

Si teme, infatti, che la pentola a pressione, sia sull’orlo dello scoppio e questo potrebbe avere conseguenze a cascata sull’unità che, in queste tre settimane, stava tenendo insieme il Paese, diviso per i nove mesi precedenti, da quando avevagiurato il governo ultranazionalista guidato da Netanyahu.

Stando alle fonti ufficiali israeliane i prigionieri nell’enclave sono 229, ma potrebbero essere molti di più - o molti di meno - perché il gruppo terroristico non ha mai rilasciato una loro lista, senza la quale, non sarà possibile iniziare alcun tipo di negoziazione.

Le liste con cui tutti i giorni fanno i conti queste famiglie straziate dal dolore sono tre: quella dei “presunti” ostaggi: coloro che sono stati riconosciuti come tali dall’intelligence israeliana, stando ai video rilasciati da Hamas; quella dei defunti, che non fanno che aumentare di giorno in giorno, man mano che la polizia forense riesce a rimettere assieme il Dna di quel che è rimasto dei corpi fatti a pezzi, decapitati e bruciati; la lista dei “dispersi”, che non si sa ancora a quale delle due liste andranno ad aggiungersi.

Oltre a vivere in questo limbo, fino a ieri le famiglie degli ostaggi non hanno avuto un vero interlocutore governativo su come l’esecutivo si stia muovendo, e con quale strategia, per il recupero degli ostaggi.

Per tre settimane il Comitato ha sinora cercato di contenere la possibile eruzione dovuta ad una situazione kafkiana, per permettere al governo e all’esercito di operare negli interessi di tutto Israele, inclusi gli ostaggi.

Fino ieri quando, posto alle strette, Netanyahu ha dovuto far fronte a quella fetta di Paese che non può più attendere.

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