sabato 30 novembre 2013
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«Quello filippino è un popolo che non ha paura di soffrire, abituato a vita faticosa e precaria, in un Paese senza storia, abituato a ricostruirsi». Così Margherita Dalla Benetta, suora della congregazione delle Domenicane della Beata Imelda, da oltre vent’anni nelle Filippine, vede la prospettiva delle aree devastate l’8 novembre dal tifone Haiyan.Qual è stata la sua esperienza del tifone, in che modo è coinvolta ora?Io mi trovo a Calabanga (provincia di Camarines Sur) dal 1992. La nostra missione è un servizio educativo per 800 alunni, in maggioranza poveri. La nostra area è conosciuta per la violenza dei suoi tifoni, ma in questo caso ne siamo stati appena sfiorati. Ci ha coinvolto in altro modo, però. Come scuola, e con il sostegno di Avsi, con cui da anni abbiamo un rapporto per l’adozione a distanza di nostri studenti, abbiamo discusso tre progetti. Il primo la raccolta di viveri preso le nostre famiglie con cui abbiamo riempito un container. Il secondo, riguarda l’accoglienza di una trentina di studenti delle medie proposti da scuole di Tacloban, almeno per terminare l’anno scolastico. Ultimo impegno, quello di sostenere la ricostruzione di abitazioni di famiglie nelle località da cui provengono due nostre suore sulle isole di Iloilo e Samar.Si è parlato molto della preparazione a questi eventi e se si fosse potuto evitare un bilancio di vittime tanto pesante...C’è stata molta mobilitazione prima del tifone. Sono stati tagliati gli alberi a rischio di caduta, si sono accumulati sacchi di sabbia a protezione delle case della costa, si è evacuata la popolazione a rischio. La gente ha trovato rifugio in scuole, centri parrocchiali, anche da noi. Insomma, posso dire che le iniziative previste dal programma di prevenzione in atto da 4-5 anni sono state attuate. È un fatto, però, che molti hanno scelto di non lasciare le proprie case e raggiungere i centri di raccolta. Quello che ha effettivamente sconvolto i piani sono stati forza e dimensione del fenomeno atmosferico che hanno travolto anche le strutture d’accoglienza: le chiese, gli impianti sportivi, le scuole individuate per resistere, ma non a fenomeni di questa intensità.Molte le critiche anche per i soccorsi nell’emergenza, però.Si potrà forse valutare meglio con il passare del tempo ma per ora si può dire che da subito sono saltati soprattutto gli strumenti di comunicazione. Anche le famiglie di quattro nostre suore non hanno dato notizie per giorni, una consorella ha sentito il fratello a oltre una settimana dal tifone.Le strade sono state devastate, i collegamenti aerei sono stati in sufficienti per qualche tempo. Occorreva forse agire subito con gli elicotteri, con mezzi maggiori per rompere l’isolamento, ma i problemi sono stati tanti. Il fratello di una suora che conosco, dipendente dell’Autorità nazionale per il cibo è stato fermato da ribelli del Nuovo esercito del popolo che gli hanno chiesto di consegnare il riso in distribuzione e al rifiuto gli hanno sparato, uccidendolo.Per la sua esperienza, che cosa potrebbe insegnare un evento del genere al Paese?Conferma la necessità di educare le persone ai disastri naturali che vanno messi in conto, sia per la posizione dell’arcipelago, sia perché i cambiamenti climatici hanno forse portato a fenomeni più forti che in passato. Occorrono anche più sensibilità ecologica, maggiore rispetto del territorio. Forse anche maggiore serietà nell’affrontare le cose. La mamma della nostra suor Rosanna è rimasta a casa fino a quando il tetto è volato via. Per fortuna si è salvata. Non credo che il governo possa essere accusato di inazione, ma certamente era impreparato rispetto al fenomeno. Occorre pensare allo straordinario oltre le emergenze ordinarie, non sperare che il tifone devi una volta ancora.
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