giovedì 8 maggio 2025
Manifestazione con 60 gruppi nel People Peace Summit
Aziz Abu Sarah (a sinistra), palestinese, e Maoz Aziz, israeliano, hanno aperto il People peace summit con il racconto della loro amicizia nata dopo il massacro del 7 ottobre

Aziz Abu Sarah (a sinistra), palestinese, e Maoz Aziz, israeliano, hanno aperto il People peace summit con il racconto della loro amicizia nata dopo il massacro del 7 ottobre - .

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«Come mettere fine all’intollerabile bagno di sangue a cui assistiamo? Tutto, in definitiva, si riduce a questa domanda. La risposta è sul tavolo da tempo. Non occorre inventare nulla di nuovo. Ci vogliono, però, leader che abbiano il coraggio e la lungimiranza di agire di conseguenza».

Ne è convinto l’ex premier israeliano Ehud Olmert, a lungo pilastro del Likud e fondatore del partito centrista Kadima nonché braccio destro di Ariel Sharon, poi costretto alle dimissioni in seguito alla condanna per l’accusa di tangenti, sempre negata dall’interessato. Difficile definirlo un “pacifista naif”. Eppure, da mesi, a livello nazionale e internazionale, a rilanciare i negoziati di pace tra i rispettivi popoli basati sulla soluzione dei due Stati, insieme all’ex diplomatico palestinese Nasser al-Kidwa.

«Sapevamo entrambi l’uno dell’altro ma non ci eravamo mai conosciuti prima dell’anno scorso. Fin dal primo incontro, online, abbiamo scoperto di concordare su molte cose – prosegue Olmert –. Prima fra tutte l’urgenza di liberta, autodeterminazione, sicurezza per le genti che abitano la terra fra il Giordano e il mare». Proposta che entrambi presenteranno al People peace summit in programma oggi e domani a Gerusalemme. In uno dei momenti più tragici dal 7 ottobre 2023, oltre sessanta organizzazioni della società civile di Israele e Palestina, riunite nella coalizione “It’s time”, hanno deciso di lanciare un potente grido di resistenza nonviolenta al bellicismo imperante. E di portare, con l’aiuto di analisti, esperti, diplomatici, artisti, alternative concrete alla guerra senza fine propagandata dal governo di Benjamin Netanyahu e da Hamas. Una posizione, per altro, sostenuta dalla maggioranza dell’opinione pubblica: i due terzi di israeliani e palestinesi chiedono un accordo.

«Prima o poi dovremmo fermarci. Il punto è quante altre vite saranno distrutte nel frattempo», sottolinea al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat e vicino al detenuto- simbolo di Ramallah, Marwan Barghuti. «Per questo è necessario un cambio di leadership – reale, non un ritocco di facciata -, sul fronte palestinese come su quello israeliano – afferma –. Quelle attuali sono responsabili del disastro attuale”. “Allo stesso tempo, dobbiamo mobilitare i cittadini. Da qui l’idea di un coordinamento tra le varie realtà attive per la pace», affermano Maoz Inon e Aziz Abu Sarah, l’uno israeliano e l’altro palestinese che, dopo il 7 ottobre, hanno fondato Interact international, per promuovere il dialogo.

L’esperienza di Paesi usciti da conflitti apparentemente senza soluzione può essere cruciale. Non a caso, al People peace summit ci saranno Monica McWilliams e Avila Kil Murray, pilastri dell’Accordo del Venerdì Santo che ha messo fine allo scontro in Irlanda del Nord.

«L’ultima volta, siamo state in Israele e Palestina otto anni fa. Quando abbiamo ricevuto l’invito da parte della coalizione, dunque, ci siamo chieste se avesse senso tornare in questo tempo di crisi tanto accentuata. Siamo convinte di sì. Proprio in momenti così duri, quando il conflitto appare irrisolvibile, è fondamentale sapere che altri Paesi si sono trovati nella medesima situazione, l’hanno affrontata e superata», afferma Monica McWilliams, nata in un sobborgo di Belfast 71 anni fa, accademica specializzata nella giustizia riparativa. «Lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle», le fa eco Avila Kilmurray, 73 anni, dublinese trasferita nella parte settentrionale dell’isola per lavorare per la pace. Entrambe cattoliche e femministe hanno fondato la Northern Ireland women commission, realtà formata dalle varie fedi e componenti politiche, che ha avuto un ruolo determinante nei negoziati che hanno messo fine a oltre tre decenni di guerra in Irlanda del Nord. Con questa determinazione, le due attiviste partecipano oggi, insieme a diplomatici, artisti, esperti, al People peace summit di Gerusalemme, trasformata, per 48 ore, da epicentro del dramma mediorientale a capitale della pace.

Organizzato da “It’s time”, coalizione di oltre sessanta organizzazioni israeliane e palestinesi impegnate per il dialogo, l’evento punta a costruire un coordinamento per uscire dal baratro dello scontro a oltranza mediante «un accordo politico il quale garantisca alle genti tra il Giordano e il mare libertà, autoderminazione e sicurezza», come dice il comunicato della coalizione. «Non è un sogno di pochi ingenui, è un processo in costruzione. Su cui concorda, tra l’altro, la maggioranza dell’opinione pubblica dei due popoli», hanno detto ieri Maoz Inon e Aziz Abu Sarah, l’uno israeliano e l’altro palestinese, fondatori di Interact International. «Proprio nei momenti di massima pressione bellica, le associazioni della società civile devono assumere un ruolo di guida, cercando di trovare un nucleo minimo di valori condivisi. Sono indispensabili per uscire dalla camicia di forza del “gioco a somma zero”. Contrariamente alla narrativa dominante, per mettere fine a un conflitto occorre andare oltre la chimera della vittoria totale e dell’annichilimento completo dell’avversario. La mediazione implica un bilanciamento. È la lezione che abbiamo appreso in Nordirlanda», spiega Avila Kilmurray.
«Quando abbiamo iniziato i dialoghi di pace, immaginavamo forse di riuscire ad arrivare a un’intesa? Tutt’altro. Ha richiesto tenacia, perseveranza, pazienza. E ha implicato accettare di essere derisi e definiti, nella migliore delle ipotesi, dei sognatori senza fondamento. Non ci è importato molto. Eravamo concentrati nel mettere fine al bagno di sangue. Siamo rimasti aggrappati stoicamente a questa speranza praticamente impossibile. L’odio fra le parti erano tremendo. Ciascuno considerava l’altro l’unico colpevole. È stato un lavoro difficilissimo far comprendere che tutti eravamo parte del problema come della soluzione», aggiunge Monica McWilliams. Ora per israeliani e palestinesi una simile evoluzione appare praticamente impossibile. I primi sono ancora traumatizzati dalla strage del 7 ottobre che li ha fatti sentire minacciati come mai dopo la Shoah. I secondi sono addolorati e arrabbiati per l’eccidio in atto a Gaza. Nessuno dei due si fida dell’altro.

«Il primo passo da compiere è, dunque, riaprire canali – sottolinea l’attivista –, perché ricomincino a parlarsi. Le donne sono molto brave in questo», sottolinea l’attivista. Non a caso, uno degli incontri di oggi è dedicato proprio al contributo femminile alla pace. «In Irlanda del Nord ha consentito di includere nel testo finale – che regge da 27 anni – dossier che mai avrebbero trovato posto, come la lotta alle varie forme discriminazioni, alle diseguaglianze, alle esclusioni».

Un compito chiave anche nel contesto israelo-palestinese dove è portato avanti con slancio dalle pioniere di Women wage peace e Women of the sun. «Affinché vi sia un vero negoziato, occorre agire su più livelli – conclude Monica McWilliams – e convocare una pluralità di attori. Non solo, dunque, rappresentanti del governo di Benjamin Netanyahu e Hamas e i mediatori, come abbiamo visto negli ultimi 19 mesi. Sono necessari attori sociali interni in modo da creare una sorta di clima. E poi la comunità internazionale. Ora non sta accadendo in Medio Oriente. E la guerra va avanti, ancora e ancora. È l’ora di dire basta. Questo è il grido del People peace summit".


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