giovedì 21 febbraio 2019
Nel 2017 sono stati celebrati, in tutto il Paese, soltanto 606mila matrimoni L’allarme degli esperti: i «nuovi giapponesi» non hanno amici o fidanzate, escono di casa più per dovere che per piacere
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Yoichiro Ban ha 36 anni, fa il funzionario di banca. È divorziato, e ha due figli, che non vede dal giorno in cui la moglie, Yumiko, l’ha lasciato. Una volta al mese prova a chiamarli, ma dopo pochi minuti lascia perdere: «Loro non parlano, e io non ho niente da dire. Mando un po’ di soldi, e basta. Il passato è passato».

È quanto succede nell’80% delle separazioni, in Giappone. I figli non vedono più il genitore non affidatario. O perché viene loro impedito, o perché non c’è (reciproco) interesse. Una situazione molto diffusa e radicata nella società giapponese (che tende in questi casi a favorire un reciso taglio con il passato) e che provoca molta sofferenza tra i genitori separati, che non sanno come fare per rivedere i loro figli, anche nel caso di sentenze che ne riconoscono il diritto di visita e frequentazione. Sentenze che il Giappone dovrebbe far rispettare, ma che di fatto non riescono ad essere eseguite.

Ma torniamo a Yoichiro, con il quale abbiamo chiacchierato a lungo, una sera, dopo averlo notato, solo soletto, che sorseggiava un ramen (zuppa di spaghetti di origine cinese, popolarissima in Giappone) in un minuscolo locale di Shinjuku, uno dei quartieri H 24 di Tokyo. La catena che per prima si è specializzata, per così dire, nella clientela «soli che vogliono restare soli» è la Ichiran: si acquista un buono a una macchinetta, si consegna il bigliettino al bancone e si aspetta che il proprio numero venga chiamato. Poi si prende il vassoio e ci si siede – si fa per dire, spesso si tratta di minuscoli e scomodissimi sgabelli – con la faccia rivolta al muro in un minuscolo spazio dove è difficile appoggiare entrambi i gomiti ed impossibile, anche volendo, interloquire con il prossimo, dal quale si è separati con un cartone divisorio. Il tutto per 4 o 5 euro, che diventano 10 se vi bevete anche una birra. Yoichiro vive solo, in un apaato (piccolo monolocale) di 25 metri quadrati, senza cucina ma con un enorme televisore davanti al quale passa la maggior parte delle serate. Per andare e tornare dal lavoro impiega circa 40 minuti, un tempo accettabile, nella media dei pendolari di Tokyo.

Non ha amici, non ha fidanzate, se esce lo fa più per dovere che per piacere, e sempre assieme ai suoi colleghi. Una volta al mese, anche due, si permette un ristorante, e un giro al karaoke. Sempre rigorosamente da solo. Triste? Neanche per sogno, per lui e per molti altri giapponesi, sia maschi che femmine (soprattutto) la solitudine non è una condanna. È un privilegio. «Viviamo in un società troppo veloce – mi spiega – e con obiettivi sempre meno chiari e stimolanti. Tutto il resto, relazioni sociali e famiglia comprese, diventato un peso. Sono contento di essermene liberato».

Per ora, il «privilegio della solitudine » riguarda solo un giapponese su tre, ma entro quindici anni dovrebbero diventare maggioranza assoluta: più del 50% della popolazione giapponese, secondo uno studio della Nomura Research Institute sarà single. I dati ufficiali parlano chiaro, i matrimoni diminuiscono, i divorzi aumentano. Nel 1967 si sono registrati oltre 950mila matrimoni e appena 83.000 divorzi. Cinquant’anni dopo, nel 2017, appena 606mila matrimoni e ben 212mila divorzi. «Fino ad una ventina di anni fa – spiega Mayumi Odagiri, sociologa – i matrimoni in Giappone erano molto stabili, soprattutto gli omiai (matrimoni «arrangiati», in famiglia o in azienda, tuttora la maggioranza, ndr) ma ora il tasso di divorzi è altissimo, superiore ad alcuni Paesi occidentali. Uno su tre fallisce».

E visto che il matrimonio non è più, come un tempo, un investimento relativamente «sicuro » – e visto il costo non indifferente che rappresenta contrarlo e poi eventualmente scioglierlo – molti preferiscono la convivenza (anche se in Giappone le cosiddette «unioni civili» non sono ancora riconosciute, legalmente) o direttamente il «privilegio» della solitudine.

Un dato inquietante: nel 1980 solo un uomo su 50 e una donna su 22, superati i 50 anni, non avevano mai contratto matrimonio. Oggi questa proporzione è aumentata a uno su 4 per gli uomini e una su 7 per le donne.

E mentre governo ed istituzioni – tranne alcuni comuni nelle province rurali, peraltro meno colpiti dal fenomeno – sembrano sottovalutare la questione e non prendono in considerazione provvedimenti fiscali e altro tipo di incentivi per convincere i giapponesi a rilanciare il concetto di “famiglia”, il mondo del commercio e dell’intrattenimento si “adegua” (e spesso stimola) la nuova cultura ohitorisama. Viaggi organizzati specificamente “disegnati” per single (sia uomini che donne), cinema con poltrone riservate e protette da separè che impediscono non solo il contatto, ma anche la vista del vicino, supermercati che vendono microporzioni sia di cibo pronto (anche di ottima qualità, come il bento) che di frutta, verdure, ortaggi.

Oggi non solo nei combini, empori aperti 24 ore su 24, anche nei grandi supermercati e nei centri commerciali si vendono ortaggi e frutta al pezzo, anziché al chilo. Non è un fenomeno nuovo, soprattutto per la frutta che in Giappone è considerata un lusso, ma è sicuramente più diffuso e appariscente del passato.

Discorso a parte merita il mondo dell’intrattenimento, dall’innocuo karaoke, da sempre passatempo nazionale per il popolo giapponese, alle più o meno spinte forme di intrattenimento sessuale, che oramai giungono a livelli impensabili di perversione. Come l’Henna-Pizza, un servizio di pizza a domicilio a dir poco “strano”: non si ordina solo la pizza, si può anche prenotare, sempre online, un po’ di tempo intimo con chi ve la porta a casa.

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