mercoledì 3 agosto 2022
Il 3 agosto 2014 la minoranza etno-religiosa del Sinjar, nell'Iraq nord-orientale, fu massacrata dal Daesh: un genocidio da 250mila sfollati, almeno 5.000 morti e 6.700 donne e bambini schiavizzati
Il dolore dei parenti delle vittime del genocidio yazida in una commemorazione che si è tenut a Duhok nel Kurdistan iracheno

Il dolore dei parenti delle vittime del genocidio yazida in una commemorazione che si è tenut a Duhok nel Kurdistan iracheno - Ansa

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Nadia Murad, la ragazza yazida Premio Nobel per la Pace 2018 e diventata simbolo della lotta contro le violenze contro i più fragili nei conflitti, una volta l’ha spiegato con queste parole: «Il fatto che non se ne parli o non sia scritto sui giornali, non vuol dire che quella guerra o quella tragedia non esista». E gli yazidi, la minoranza etno-religiosa che il 3 agosto 2014 fu massacrata dalla furia fanatica del Daesh per la sua fede, ha come primo bisogno quello di non farsi dimenticare.

Così per divulgare le cifre di un genocidio da 250mila sfollati, 5.000 morti, 6.700 donne e bambini rapiti per essere schiavizzati, 80 fosse comuni e 2.719 persone scomparse o ancora prigioniere dei miliziani, il progetto “Nobody’s Listening” ha creato un visore virtuale da indossare con il quale, attraverso un potente minuto di suoni e immagini si può rivivere quel che hanno visto i sopravvissuti. “House of Coexistence”, invece, è un edificio polifunzionale di 1.200 metri quadrati a Sinuni, nel Sinjar – Nord-Est dell’Iraq – terra di origine degli yazidi, voluta da Mirza Danayi, medico e attivista che ha stanziato un milione di dollari per progetti umanitari, compresa questa casa con dormitorio, biblioteca, aule per corsi di formazione, assistenza ai sopravvissuti e museo per tenere viva la convivenza di religioni ed etnie: yazidi, arabi sunniti e sciiti, cristiani caldei e armeni, la fede bahai, curdi, assiri, turkmeni, kakai, shabak. La croce fiorita, realizzata nel giardino di quasi due ettari, è dedicata a papa Francesco.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha da poco consegnato dispositivi e attrezzature mediche a Erbil, Makhmur e Qarachukh, ma soprattutto cerca di riattivare i servizi sanitari per quegli sfollati interni che di recente sono riusciti a rientrare nelle loro case. Segnali. Eppure a maggio, in 10mila sono fuggiti di nuovo verso i campi di accoglienza di Erbil e Dohuk, nel Kurdistan iracheno: via da morti e macerie per gli scontri tra l’esercito di Baghdad e le Unità di protezione popolare (Ybs), milizia di cui fanno parte anche molti yazidi, affiliata al Pkk che difese la popolazione nel 2014 all’arrivo del Daesh, di fronte alla fuga dei peshmerga curdi. Dal 18 aprile le Ybs in Iraq come in Siria, sono anche il bersaglio dell’ennesima operazione turca, denominata “Claw Lock”, contro il Pkk, ritenuto da Ankara un’organizzazione terroristica. Così l’altro grande bisogno della minoranza è la sicurezza dell’area: nello scacchiere militare del Sinjar e della piana di Ninive, traffici di uomini, rifornimenti e interessi riguardando anche le milizie al-Hashd al-Shaabi, finanziate dal governo iraniano, alleate di tribù e genti cristiane, shabak e turkmene e delle Ybs, in ottica anti-Erbil.

Da settimane le proteste yazide nei villaggi sono per chiedere un ruolo diretto nell’amministrazione dell’area e la sola presenza delle forze di polizia di Baghdad e dell’Onu. Anche l’accordo del 2020 tra governo regionale del Kurdistan e governo centrale è rimasto inapplicato e inapplicabile: amministrazione politica neutrale, ricostruzione, stabilità. Obiettivi difficili in una terra in cui i 193mila sfollati dei campi non riescono a tornare per mancanza di servizi, case. E di giustizia. A partire dal recuperare i corpi dalle fosse comuni lasciate dal Daesh. Il 29 giugno ne sono state scavate 6 nel villaggio di Qani: secondo i sopravvissi, erano la sepoltura di 70 uomini e bambini trucidati.

Non basta che la Germania abbia condannato per la prima volta un miliziano del Daesh, Haha al Jumailly, per la morte di una bambina yazida resa schiava con la madre, oltre che per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. O che un team di avvocati inglesi per i diritti umani (il “Yazidi Justice Committee”), lottino perché Siria, Iraq e Paesi come il Qatar e la Turchia debbano finire alla sbarra per non aver impedito il commercio di donne e bambine e il passaggio dei loro carnefici attraverso i propri confini.

Anche i figli e molte mogli “straniere” dei jihadisti, detenuti nel campo di al-Hol in Siria, sono lì, confinate tra quelle tende: ci sarebbero anche ragazze yazide, terrorizzate, in attesa di essere salvate.

Nadia Murad è stata invitata a scrivere l’introduzione dell’edizione del 75esimo anniversario del Diario di Anna Frank: «Nonostante le differenze nelle nostre storie, i nostri Paesi, lingua e religione, ho sentito un legame immediato con Anna – ha scritto –. Spero di onorare la sua memoria e continuare a portare luce sulla realtà del genocidio». Per non essere dimenticati.

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