giovedì 16 luglio 2020
Primi test positivi tra i medici. Nella provincia, con oltre un milione di civili nelle tendopoli, più di ottanta ospedali sono stati bombardati e i letti in terapia intensiva sono solo 300
Il gigantesco campo profughi di Atma, nel governatorato di Idlib, al confine turco

Il gigantesco campo profughi di Atma, nel governatorato di Idlib, al confine turco - Reuters

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Il regime di Assad continua a tacere. Ma a Idlib, nel nord-ovest della Siria, cresce la preoccupazione dopo che tra il personale medico sono stati registrati i primi casi di contagio da coronavirus. In quell’area vivono oltre tre milioni di persone, di cui più di un milione sono stipate all’interno di tendopoli fatiscenti – se ne contano oltre 1.200 sorte un po’ ovunque – in condizioni di grande precarietà. Il territorio è in mano alle forze di opposizione anti-governative e si registra anche la presenza di migliaia di combattenti estremisti di varie nazionalità.

A seguito dell’ennesimo veto di Russia e Cina, il Consiglio di sicurezza dell’Onu non ha raggiungo un’intesa in merito al rifornimento di aiuti provenienti dalla Turchia. Quei rifornimenti sono indispensabili per la sopravvivenza degli sfollati, in gran parte donne e bambini, che soffrono già per il mancato accesso all’acqua potabile e per le difficoltà di avere un’adeguata assistenza sanitaria. Negli ultimi 12 mesi, oltre ottanta strutture sanitarie sono state distrutte dai bombardamenti, paralizzando di fatto il sistema medico. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), i letti di terapia intensiva a Idlib sono solo 300 e ci sarebbe un numero limitato di ventilatori. Mancano, inoltre, dispositivi di sicurezza come mascherine, guanti, camici, igienizzanti e non è possibile praticare il distanziamento fisico a causa del sovraffollamento dei campi che accolgono gli sfollati. «Il coronavirus si diffonderà nelle tendopoli come un incendio», prevede Hussam Al Fakir, presidente del Union of medical care and relief organizations in Syria (Uossm). «Le persone più a rischio – aggiunge – sono gli anziani e coloro che hanno patologie pregresse come asma, cancro, epatite e diabete.

La comunità internazionale dovrebbe fornire alle strutture della zona dispositivi di protezione individuale e kit per effettuare i test». I contagi a Idlib sarebbero partiti proprio dal personale sanitario, dopo che, giovedì scorso, un medico in servizio in un ospedale al confine turco-siriano era risultato positivo al Covid-19, secondo quanto riferito dall’Early warning and alert response network. Un esponente dell’Organizzazione mondiale della Sanità in Turchia, Mahmoud Daher, ha affermato che la struttura a Bab Al Hawa è stata chiusa in via cautelativa. In tutta la Siria, secondo il Worldmeters, si contano 417 casi di coronavirus (per il Johns Hopkins University sarebbero 372); 6 i casi registrati nel nord-est, nell’area sotto il controllo curdo; le vittime sarebbero 19 e le persone ricoverate 136. Il condizionale è d’obbligo perché, come denunciano i medici, il numero di tamponi effettuati è ancora molto basso.

Al 30 giugno, secondo Save the children, nell’area di Idlib i tamponi effettuati erano solo 1661. Secondo i dati pubblicati martedì dall’Ong siriana Assistance coordination unit (Acu), il totale dei test effettuati nel Paese sarebbe di 2.695, si registrerebbero tre nuovi casi e il numero totale di positivi salirebbe così a 8. Ben 6 milioni di siriani vivono nella condizione di sfollati interni e sono, per questo, fortemente esposti al rischio di un eventuale contagio. «Ora più che mai le armi devono tacere», ha affermato in un appello Sonia Kush, portavoce dell’associazione Save the children in Siria: «Il cessate il fuoco deve essere mantenuto e bisogna concentrare tutti gli sforzi per garantire la salute della popolazione. La notizia del primo caso confermato di coronavirus nella zona di Idlib è un duro colpo per milioni di civili».

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