I coloni israeliani vogliono prendersi Gerusalemme Est. A colpi di ingiunzioni

Una legge del 1970 consente alla popolazione di origine ebraica di reclamare le proprietà lasciate in seguito alla guerra del 1948. Ora il confronto è nei tribunali: le famiglie palestinesi resist
July 1, 2025
I coloni israeliani vogliono prendersi Gerusalemme Est. A colpi di ingiunzioni
Palazzi e case a Gerusalemme Est
Con un sacchetto della spesa in mano, la ragazzina cammina indifferente alla presenza di tre guardie armate che “scortano” una colona israeliana. John Berger la “guarda” benevolo dal muro di pietra dorata, il colore della pelle millenaria di Gerusalemme che brilla alla luce ostinata del pomeriggio. Quelli dello scrittore e critico d’arte scomparso nel 2017, strenuo difensore della causa palestinese, sono alcuni dei tanti occhi giganti dipinti sulle case e sui vicoli delle colline di Silwan. Quasi un chilometro di graffiti e murales realizzati negli ultimi dieci anni dall’associazione locale Madaa creative center. Con il progetto “I witness Silwan” (“sono testimone di Silwan”), i 700 residenti vogliono dichiarare al mondo la loro esistenza. E resistenza. Sumud, si dice in arabo. Specie ora che la vista del mondo è offuscata da Gaza, Iran e altre emergenze.
Situato a sudest della Città Vecchia, fra il monte Sion e quello degli Ulivi, il quartiere è uno dei fronti della “battaglia di Gerusalemme”. Un conflitto che il governo israeliano e il municipio combattono a colpi di ingiunzioni di sgombero, citazioni in tribunale e progetti di giardini e scavi archeologici. Con l’obiettivo, non dichiarato quanto evidente, di penetrare nelle fibre urbane dell’Est, occupato dall’esercito di Tel Aviv nel 1967 ma ancora popolato di palestinesi. Soprattutto nelle aree a ridosso delle mura. Come Batan al-Hawa, cuore di Silwan e rifugio, all’inizio del Novecento, di una comunità di ebrei yemeniti. La scorsa settimana, la Corte Suprema ha rigettato l’appello della famiglia Um Nasser Rajabi: dovrà, dunque, lasciare la palazzina acquistata nel 1975 a Ateret Cohanim, organizzazione ebraica impegnata nella riconquista della metropoli. Cinque giorni prima, lo stesso tribunale aveva respinto un’analoga istanza degli Shweiki e degli Odeh. I tre nuclei – per un totale di 37 persone – saranno presto sfrattati come accaduto a sedici prima di loro. Un’altra sessantina di famiglie – rivela Peace Now – lotta nei tribunali per difendere le proprie case. Non è, però, facile. Una legge, approvata dalla Knesset nel 1970, consente agli israeliani di reclamare le proprietà lasciate a Gerusalemme Est in seguito alla guerra del 1948. Diritto non consentito, in base a una normativa del 1950, ai palestinesi in merito alle abitazioni perdute negli sfollamenti seguiti alla nascita dello Stato ebraico. «Questo doppio standard legislativo è un’ingiustizia e un crimine», spiegano da Peace Now.
Per Daniel Seidemann, avvocato e fondatore di Terrestrial Jerusalem, Silwan è una tessera del puzzle da un miliardo di shekel – circa 250 milioni di euro – che si va componendo da due decenni e che il 7 ottobre ha accelerato. Solamente legandola alle altre emerge l’immagine completa: un grande arco di insediamenti israeliani intorno al quadrante orientale della Città vecchia. «Silwan è l’estremo meridionale. Proseguendo verso nord si trovano le aree di Rasel el-Amud, il Monte degli Ulivi, la Valle di Kidron, Sheikh Jarrah. Tutte sono oggetto di innovazioni – la cabinovia dall’Ovest alla Porta del Letame, a 170 metri dalla moschea di al-Aqsa il ponte sulla valle di Hinnom, gli scavi della Città di Davide – o di reclami giudiziari. Mezzi differenti con cui si persegue un medesimo fine: scolpire il paesaggio di Gerusalemme in base a un’interpretazione fondamentalista della Bibbia che la gran parte degli israeliani rifiuta – dice Seidemann, senza esitazione –. Così si dà agli estremisti ebrei il controllo sul nucleo spirituale della Città Santa, escludendo gli islamici e marginalizzando la presenza cristiana».
Il parco archeologico di City of David è la sintesi visiva di tale prospettiva. I pannelli, sparsi lungo il percorso, illustrano come su quel luogo sorgesse, 3mila anni fa, il Palazzo di Davide, nucleo originario di Gerusalemme. Bibbia in mano e cappello da Indiana Jones, nel video in 3 d, la simpatica guida virtuale Amos, con in sottofondo una musica da kolossal hollywoodiano, viaggia nei secoli fino alla “riscoperta” con gli scavi alla fine del XIX secolo. Sono quelle pietre, antiche e massicce – questo il messaggio – il fondamento dell’attuale rivendicazione israeliana.
Questa politica «rappresenta una sostanziale cesura rispetto alla linea tenuta da Israele su Gerusalemme Est», sottolinea Seidemann, tra i più profondi conoscitori dell’evoluzione socio-urbanistica della Città Santa. «Nei quarant’anni successivi all’occupazione, vi si sono trasferiti 230mila coloni – aggiunge –. Le terre palestinesi su cui hanno costruito dieci grandi insediamenti erano, però, scarsamente popolate. Non ci sono state demolizioni o sfollamenti su larga scala». La svolta è cominciata nel 2005, in concomitanza con il ritiro da Gaza e l’exploit delle colonie in Cisgiordania. Quattro anni dopo, tre famiglie arabe sono state sgomberate da Sheikh Jarrah. «Siamo seduti in Palestina», afferma Salah Diab mentre indica il salotto allestito sotto il pergolato del suo giardino, ritrovo abituale di giornalisti e attivisti. Di fronte, blindati da reti e telecamere, abitano i coloni che hanno occupato la casa degli al-Gawi. «Ricordo bene come li hanno cacciati in mezzo alla strada dove si sono accampati per mesi», racconta Diab, uno dei protagonisti della protesta che ha congelato l’espulsione degli oltre 500 sfollati palestinesi da Israele a cui, nel 1956, Onu e Giordania – sotto il cui mandato all’epoca era Gerusalemme Est – avevano assegnato il quartiere. Ma gli ordini di sfratto sono continuati a piovere e la protesta procede, settimana dopo settimana, come raccontano gli scatti raccolti da Diab: il suo sgombero potrebbe diventare operativo fra un mese. «Procedono a macchia di leopardo, per attirare meno l’attenzione. Noi abbiamo ricevuto la prima ingiunzione nel 2013 – dicono Samira Budairi e il marito Adel, due case più in là –. Tra istanze respinte e stop, la causa va avanti. Ma ancora siamo qui. Per quanto, non si sa». Il puzzle è incompleto. Il Monte degli Ulive è una delle più vistose tessere mancanti. Finora.

© RIPRODUZIONE RISERVATA