sabato 17 maggio 2025
La decisione di partecipare alla Messa di inizio Pontificato: «Inutile nascondere che ci siano state tensioni, ma siamo pronti a iniziare un nuovo capitolo nella storia delle relazioni col Vaticano»
Il presidente israeliano Herzog

Il presidente israeliano Herzog - Ansa

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Domani il presidente israeliano Isaac Herzog rappresenterà lo Stato ebraico alla Messa di inizio del Pontificato di papa Leone. Nel suo recente messaggio di congratulazioni al nuovo Pontefice, ha sottolineato l'importanza di rafforzare i legami tra Israele e la Santa Sede.
Avvicinandoci al sessantesimo anniversario della storica dichiarazione Nostra Aetate, e nel contesto delle complesse sfide che Israele e la comunità internazionale stanno affrontando, quali opportunità intravede per approfondire questa relazione?
Mi sento coinvolto sotto due aspetti: nazionale e personale. Per Israele, il rapporto con la cristianità, e in particolare con i cattolici, è un’alta priorità: la Terra Santa è la base delle tre religioni monoteiste. Inutile nascondere che ci siano state tensioni. Ma la speranza è sempre di vedere dei cambiamenti. E siamo pronti a iniziare questo nuovo capitolo nella storia delle nostre relazioni. Venendo a me, la storia della mia famiglia, impegnata per tre generazioni nel dialogo ebraico-cristiano, parla da sola. Mio nonno era Yitzhak HaLevi Herzog, rabbino capo durante il Mandato di Palestina e poi nello Stato di Israele: ha avuto profondi rapporti con il cardinale Roncalli, poi diventato papa Giovanni XXIII, che completò la prima stesura della Nostra Aetate. Mio zio, Yakoov Herzog, come diplomatico, negli anni Settanta ebbe un ruolo cruciale nello sviluppo dei rapporti tra lo Stato di Israele e il Vaticano: un impegno che portò, nel 1994, all’instaurazione delle relazioni diplomatiche ufficiali. Mio padre, Chaim Herzog, presidente di Israele dal 1983 al 1993, costruì un rapporto solido con la Santa Sede. Infine, ci sono io, che mi considero un umile servitore dello Stato, ma ho avuto il privilegio di ricevere la visita di due papi: Giovanni Paolo II e Benedetto. Tutto ciò che voglio è promuovere la coesistenza, in questa terra. Fare bene. E considero un grande onore partecipare alla cerimonia di domani.
Il 7 ottobre, Israele è stata trascinata dai terroristi di Hamas dentro una guerra da cui fatica a uscire. Un conflitto che causa tantissimo dolore e che oggi gran parte degli israeliani, perlopiù inascoltati, non vogliono. Come dare voce a chi sta cercando una soluzione? E cosa può fare la comunità cristiana, anche quella israeliana, piccola ma vitale, e in crescita, per creare un terreno comune di dialogo?
Per mettere fine a questa guerra è necessario comprendere il dolore. E credo che, fino a qui, il dolore della mia gente per il 7 ottobre non sia stato davvero capito. Non si tratta “solo” del peggior massacro terroristico che Israele ha subito dalla Seconda Guerra mondiale: è stato il massacro di persone che credevano nella pace, nella convivenza, che vivevano accanto, in senso fisico, a chi le ha uccise, bruciate, stuprate, rapite nel modo più crudele che si sia mai visto. Questo ha innescato meccanismi di auto-difesa, in un popolo intero, che non si possono liquidare con faciloneria. C’è poi il dolore dei palestinesi, e le assicuro che io, noi israeliani, lo sentiamo, lo viviamo come nostro. Ma c’è un’unica, sottolineo, un’unica chiave per aprire la porta a una soluzione, qualcosa che vi invitiamo a cercare insieme a noi, rivolgendo la nostra richiesta in particolare alla comunità cristiana: il rilascio degli ostaggi. Serve pressione per riportare a casa la nostra gente. Abbiamo 58 persone, là sotto, quaranta metri sotto terra, nelle condizioni che conosciamo. Abbiamo negoziato con Hamas. Ma li tengono lì, come arma per raggiunge il loro scopo che, in quanto jihadisti, è uno solo: cancellare il nostro popolo, e distruggere le altre religioni. Compresi i musulmani che non la pensano come loro, e che sono stati trucidati in quel Sabato Nero al pari di tutti gli altri. Ve lo posso garantire: se rilasciano gli ostaggi, ci sarà il più positivo e persistente cambiamento per Gaza e per tutta le regione. Come abbiamo visto in Siria e in Libano: situazioni che ci danno speranza.
Due giorni fa, a Berlino, ha chiesto alla comunità internazionale di sostenere un nuovo piano per fornire aiuti direttamente ai civili della Striscia di Gaza aggirando Hamas. Che modalità e tempi prevedete?
Il governo israeliano sta trattando con i partner internazionali per studiare un meccanismo adatto, nel pieno rispetto del Diritto internazionale. Il problema è capire come evitare che gli aiuti finiscano nelle mani di Hamas, che non li usa certo per sfamare i palestinesi, ma per nutrire la macchina della guerra. Abbiamo gli americani al nostro fianco. Credo che potrete vedere sviluppi molto presto. Ma mi voglio ripetere: se rilasciano gli ostaggi, tutto si risolverà anche per la popolazione palestinese. Immediatamente.
Come valuta il recente viaggio del presidente Trump nella regione?
Se “usata” correttamente da tutte le parti coinvolte, la visita del presidente Trump può contribuire a uno storico cambiamento, nella prospettiva degli Accordi di Abramo – percorso inaugurato dallo stesso Trump nel suo primo mandato. La mia vera aspirazione è stringere la mano dello sceicco Mohammed bin Salman come autentico simbolo di avvicinamento tra ebrei e musulmani, auspicando che questo progetto di pace venga pienamente abbracciato. La visita di Trump ha esposto la reale alternativa di coesistenza e cooperazione che può essere offerta al Medio Oriente: l’alternativa al sangue e all’odio.
I sauditi chiedono anche una soluzione per i palestinesi. È ancora possibile quella che prevede due Stati per due popoli?Dobbiamo, tutti insieme, ripensare il nostro approccio alla pace. Dobbiamo ricostruire la fiducia. Che in questo momento manca del tutto. È un processo complicato. Non si può dire: Ok, tutto risolto, tutto passato, questi sono i confini. Ci vuole tempo. Ma le dico una cosa: sono appena tornato dalla mia visita in Germania, dove ho incontrato il mio caro amico, presidente Steinmeier. Se succede questo con i tedeschi, dopo l’Olocausto, potrà succedere anche con i palestinesi. È la mia profonda speranza. Ma il terrorismo non può avere spazio.
Fin dai giorni immediatamente successivi al 7 Ottobre, in Europa è riemerso un antisemitismo che, evidentemente, covava da sempre. Tende perlopiù a “giustificarsi” come antisionismo. Di fatto, persino i sopravvissuti dell’Olocausto, come la senatrice Liliana Segre, vengono attaccati, insultati. Le comunità ebraiche sono sottoposte a continue pressioni. Che percezione ha Israele di quanto sta accadendo qui?
Liliana Segre è una grandissima persona, e una preziosa testimone, come Primo Levi. È inconcepibile che debba subire ancora tutto questo. Sì: lo chiamano “antisionismo”, o addirittura “anti-israelismo”. Stiamo monitorando il fenomeno in tutto il mondo, e ritengo che in Italia il governo stia facendo passi importanti. Poi credo che l’antidoto sia soprattutto uno: la conoscenza. La cultura. Ascoltassero Liliana Segre. Leggessero Primo Levi.
Che messaggio porterà con sé, domani in Vaticano, per papa Leone XIV?
Intendo porgere un messaggio sincero di amicizia, di rispetto e di dialogo. E voglio invitalo in Terra Santa, qui da noi. Per incontrare il popolo israeliano.



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