giovedì 3 luglio 2025
Apertura di Hamas nell'incontro coi mediatori al Cairo: sul tavolo il rilascio degli ostaggi. Il ruolo di Doha, più forte dopo l'Iran. La chiave è la garanzia Usa che Israele non riprenda l'offensiva
Manifestanti contro Netanyahu in Israele, dove si chiede il rilascio degli ultimi ostaggi da parte di Hamas

Manifestanti contro Netanyahu in Israele, dove si chiede il rilascio degli ultimi ostaggi da parte di Hamas - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Il passaggio è stato repentino. Il Medio Oriente è passato dalla “guerra dei dodici giorni” all’attuale fase della “diplomazia dei dodici giorni”. Questo è l’intervallo tra il cessate il fuoco tra Israele e Iran “made in Usa” del 24 giugno e il faccia a faccia di lunedì alla Casa Bianca tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Un tempo che potrebbe rivelarsi decisivo. E di cui il precedente momento bellico è stato il preludio. Lo scontro, in particolare, ha visto l’emergere di un attore cruciale nella scommessa statunitense di inquadrare la tregua a Gaza in un’ottica regionale: il Qatar. Il Golfo diventerebbe una sorta di cintura di sicurezza intorno allo Stato ebraico. E soprattutto un grande bazar di investimenti miliardari in high tech e intelligenza artificiale: la pioggia di dollari annunciata dal tycoon nel viaggio di maggio a Riad e dintorni ne è stata l’assaggio. Doha, da sempre, punta ad aumentare il proprio peso specifico nell’aerea e insidiare il ruolo dell’Arabia Saudita di l’interlocutore privilegiato di Washington. La tragedia del 7 ottobre ha aperto un’inedita finestra di opportunità che la leadership qatarina ha sfruttato appieno offrendosi come canale – l’unico possibile dati i buoni rapporti – tra Stati Uniti, Hamas e Iran. È stata mediatrice, insieme all’Egitto, durante l’Amministrazione Biden. La politica internazionale “b&b” del successore – cioè basata sul binomio business-bastone – ha dato a Doha ulteriori margini di manovra. Complici anche i rapporti d’affari di vecchia data con l’inviato per il Medio Oriente Steve Witkoff e quello per la Siria, Thomas Barrack. Il Qatar è stato determinante nella mediazione con l’Iran. Un successo che ora cerca di replicare nei confronti di Hamas, ai cui vertici politici offre da anni un rifugio sicuro. La nuova bozza, di cui il gruppo armato si è detto soddisfatto e ha discusso ieri al Cairo con i mediatori, è stata scritta da Doha che vi ha introdotto alcuni correttivi. Come il piano Witkoff – naufragato due mesi fa –, il documento si fonda su uno stop alle armi di sessanta giorni. Rispetto al precedente, tuttavia, stabilisce il rilascio in cinque fasi di dieci ostaggi israeliani ancora in vita e dei corpi di altri 18 corpi – sui 50 ancora prigionieri – nell’arco dei due mesi e non nella prima settimana. Otto sequestrati vivi sarebbero liberati – senza cerimonie pubbliche – il primo giorno e gli altri due il cinquantesimo.
Entro il mese, inoltre, sarebbero restituiti dieci cadaveri e gli ultimi otto alla fine. In cambio, avverrebbe la scarcerazione di prigionieri palestinesi dalle prigioni di Tel Aviv. Sono anche previsti l’entrata massiccia di aiuti e il ritiro. Più di quello scritto nero su bianco – incluse la formula sibillina sull’impegno israeliano e americano per la fine del conflitto –, le possibilità di essere accettato da Hamas dipendono da quanto Trump dirà in via riservata e Doha dovrà recapitare. «Accetterà solo se il presidente Usa potrà garantire che Israele non riprenderà la guerra al termine delle otto settimane, come accaduto nel cessate il fuoco precedente», spiega Gershon Baskin, esperto e negoziatore fra i più noti per avere ottenuto, nel 2011, il rilascio dal gruppo armato del soldato israeliano Gilad Shalit. Sarà il tycoon, dunque, a pronunciare la parola definitiva. E potrà farlo solo dopo l’incontro di lunedì con Netanyahu, il quale, finora, ha sempre respinto l’ipotesi di una fine definitiva dell’offensiva. «Solo Trump può trovare il modo di convincerlo», aggiunge Jeremy Issacharoff, ex diplomatico ed esperto di questioni strategiche. Gli assi nella manica sono diversi: dalla “grazia” nel processo che vede il premier implicato per corruzione, abuso d’ufficio e frode alla normalizzazione dei rapporti allargata a Arabia Saudita, Oman e Siria. Il clima è positivo. Questo spiega la «propensione» di Hamas ad accettare il piano, secondo quanto affermano fonti palestinesi: la risposta definitiva è prevista oggi. C’è, però, una complicazione aggiuntiva. I fatti successivi al 7 ottobre hanno ampliato le divisioni interne al movimento. Innanzitutto quella tra l’ala politica, esule a Doha, e la componente militare, a Gaza. Il Qatar ha influenza diretta sulla prima.
La seconda, inoltre, dalla morte di Mohammed Deif, è «una galassia di comandati di basso grado. Finora hanno rispettato gli ordini di Doha – afferma Baskin –. Non si sa se lo faranno in futuro. La leadership in Qatar, inoltre, è spaccata tra quanti – come il capo negoziatore Khalil al-Hayya e Khaled Meshal, recentemente riapparso – vogliono trasformare Hamas in un partito e chi – in primis il “contabile” Zaher Jabarin e il presidente del Consiglio della Shura, Muhammad Ismail Darwish – si oppone. Attenzione: nessuno, né a Doha né a Gaza, consegnerà mai le armi a Israele. Anche se è consapevole di dover cedere il potere nella Striscia, una resa a quest’ultima è fuori discussione. Il suo disarmo passa per la creazione di un governo palestinese legittimo – senza la partecipazione del gruppo armato –, sostenuto eventualmente dai Paesi arabi». «La sola maniera di eliminare realmente il gruppo armato – gli fa eco Issacharoff – è renderlo meno rilevante. E, dunque, dare una soluzione politica alla questione palestinese, riportando l’Autorità nazionale nella Striscia». Una linea rossa invalicabile per il premier israeliano. Finora. A meno di “strattoni” da parte “dell’amico Donald”.
Trump, Netanyahu, Qatar, Hamas: le quattro variabili in base alle quali si dovrà risolvere l’equazione della tregua possibile.
Uno stop che arriverà, comunque, sempre troppo tardi. Lo ripetono i familiari degli ostaggi: anche ieri decine di residenti del kibbutz Nir Oz – decimato da Hamas – lo hanno gridato al premier che, dopo 637 giorni, si è recato nella comunità. E lo gridano senza sosta i gazawi. Anche ieri in 94 – secondo i dati del ministero della Sanità della Striscia, controllato da Hamas – sono stati uccisi dai bombardamenti e dal fuoco di artiglieria dell’esercito di Tel Aviv. Quasi la metà nell’intento di procurarsi gli aiuti umanitari. L’ennesima strage del pane. Uno stillicidio perfino più crudele ora che il cessate il fuoco sembra avvicinarsi. Civili e rapiti: sul terreno restano ancora una volta loro. Le variabili – eternamente invisibili – dell’equazione-tregua

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: