sabato 14 giugno 2025
Il regime non ha più nulla da perdere, secondo gli israeliani, e questo lo rende più pericoloso: sono arrivati oltre 200 missili in 5 attacchi. La vita delle famiglie si trasferisce in rifugi blindati
I danni inferti dall'arrivo di un missile a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv

I danni inferti dall'arrivo di un missile a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv - Ansa

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La prima sirena è suonata alle nove di sera, mentre la maggior parte delle famiglie israeliane si trovavano a cena per Shabbat. E, quando si tratta di emergenza, il concetto di “famiglia” si allarga, soprattutto per chi non ha in casa il “mamad” – la stanza antimissili – che in Israele, ancora oggi, non è affatto scontato. Per questo, fin dall’allarme preventivo della notte precedente - che avvisava l’inizio del conflitto con l’Iran – in molti hanno preparato una valigia con lo stretto indispensabile e si sono trasferiti, non si ancora per quanto, a casa di chi il “mamad” ce l’ha. Altra soluzione, diffusa soprattutto nelle grandi città, è il “miklat” – il bunker “pubblico”, presente in ogni quartiere, solitamente nei pressi delle scuole – dove gli israeliani preparano ogni tipo di scorta, sia di viveri che di altre necessità, proprio come se si trattasse di casa loro: una casa condivisa con altri, più o meno conosciuti, dove chi non ha alternativa può passarci giorno e notte. Proprio come è successo venerdì notte, che sembrava non aver mai fine.
Gli attacchi da parte di Teheran sono stati cinque – a intervalli, tra le 21.00 e le 5.00 del mattino – per un totale di oltre 200 missili balistici. Tra uno e l’altro gli israeliani sono rimasti per ore nei rifugi, cercando di capire cosa stesse succedendo fuori. Dagli scambi di messaggi tra amici e parenti, si è capito che qualcosa stava andando storto, stando al numero di edifici colpiti a Tel Aviv, soprattutto nei pressi della Kirya, il quartier generale dell’esercito israeliano. Non lontano, è stato colpito il quartiere di Ramat Gan, dove ha perso la vita una donna, assieme ad altre due persone, colpite nella cittadina di Rishon Le Zion, dove il sistema di allarme non ha funzionato. Tanto meno quello antimissili, probabilmente a causa del sovraccarico di attacchi, rispetto ai due precedenti di aprile ed ottobre 2024. Oltre alle tre vittime, circa ottanta sono i civili gravemente feriti: numeri significativi per un Paese dotato di un sistema di difesa tra i più sofisticati che, negli ultimi venti mesi, è riuscito a proteggerlo da oltre 12.000 attacchi missilistici.
Questa volta, si dicono gli israeliani, Teheran non sta risparmiando nessun colpo, probabilmente perché non ha più nulla da perdere. Il regime teme che il conflitto inneschi una rivoluzione interna e, dunque, il suo crollo. Il premier israeliano ha persino mandato un messaggio ai cittadini iraniani, ricordando i rapporti storici che legano il popolo ebraico con quello persiano, come confermato anche dai reciproci messaggi di solidarietà che stanno inondando i social. La società israeliana, tuttavia, fa sempre più fatica a sopportare il peso di una guerra sempre meno locale e più globale. Domenica in Israele è giorno lavorativo e i bambini dovrebbero andare a lezione. Scuola e lavoro sembrano, però, ormai certezze lontane, con un lockdown dei cieli e le uscite per acquisti di prima necessità calcolate in base ai tempi e alla distanza dallo rifugio più vicino. Non è il giorno 3 di una guerra nuova, ma il giorno 617 di un conflitto diventato ormai insostenibile.

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