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Una miniatura 3D di Donald Trump - REUTERS
1) La “pistola fumante”
C'erano indizi e alcune certezze, nessuno dei quali legittimante la guerra preventiva israeliana contro l'Iran, epitome di un sistema internazionale anomico, in cui la vis militare fa premio sulla diplomazia. Certificare che Teheran stesse violando le clausole di salvaguardia del Trattato di non proliferazione nucleare, ostacolasse il regime ispettivo dell'agenzia internazionale per l'energia atomica e stesse incrementando a piè sospinto le scorte di uranio arricchito avrebbe dovuto galvanizzare i negoziati in itinere in Oman non affossarli in un nichilismo bellico controproducente. Che mancasse la pistola fumante lo confermava l'ultimo rapporto al Congresso della comunità d'intelligence statunitense che, a fine marzo scorso, riteneva ancora inviolato il tabù della creazione della bomba. Compreso l’ultimo rapporto Aiea he parlava di arricchimento e non di bomba come sostenuto da Netanyahu e non negato dal direttore Aiea per quasi cinque giornate.
2) Le forze in campo
dieci giorni di guerra aerea e missilistica ininterrotta, israelo-persiano-americana, combattuta su più livelli escalatori, con un “casus belli” manipolato artatamente e un fine a tratti indecifrabile, restituiscono uno scenario inequivocabile: 1°) l'iperpotenza militare statunitense pare ancora dirimente e taumaturgica, almeno nelle fasi iniziali di un conflitto definito tecnicamente “asimmetrico”; 2°) all’angolo, la teocrazia iraniana ha dato prova di buona razionalità e di istinto di sopravvivenza, stretta fra la morsa israelo-statunitense, la fragilità dell’asse della resistenza e l’incompiutezza militare dei partenariati strategici con Mosca e Pechino;
3°) privo di difese aeree credibili e potenzialmente risolutive, l’Iran si è scoperto estremamente vulnerabile ad attacchi convenzionali con un’inferiorità aerea palese, ma il potere aereo israeliano ha incontrato limiti nella sostenibilità dello scudo antibalistico interno.
3) Tutti trionfatori
Escono in apparenza tutti vincitori i duellanti di questa guerra, tragica per i civili: gli ayatollah iraniani che sono ancora in sella, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che allontana il tramonto personale col successo dell’intelligence e delle armi israeliane e il presidente statunitense, Donald Trump, che si intesta il duplice merito di aver incenerito i siti iraniani più sensibili per l’ascesa persiana alla bomba e di aver promosso in punta di baionetta un cessate il fuoco (fragile) fra Teheran e il governo di Tel Aviv. Pur ammettendo che la valutazione dei danni inferti è ancora in corso, Pete Hegseth, numero uno del Pentagono, ha dichiarato alla stampa che «tutte le nostre munizioni di precisione hanno colpito dove volevamo e hanno avuto l’effetto desiderato», anche a Fordow, magna pars del programma atomico iraniano, spettro scongiurato solo in apparenza visto il contenuto (per troppi inconsistente) del sito.
4) La caccia all'uranio arricchito
Tre sono le parole chiave del programma nucleare iraniano: complessità, ridondanza e occultamento, forse non obliterabili con i soli mezzi militari come hannop ritenuto i generali israeliani e soprattutto il Pentagono statunitense. L’infrastruttura è amplia, nota solo in parte. Prima della guerra con Israele e subito dopo la censura dell’agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Iran aveva svelato l’esistenza di un terzo sito di arricchimento dell’uranio. È molto probabile che avesse spostato in siti sotterranei segreti, al sicuro, scorte di uranio al 60% e centrifughe non ancora installate, assicurando loro un domani. Le immagini satellitari non fugano i dubbi sulla distruzione di Fordow e sulla compiutezza degli attacchi americani, qui, a Isfahan e Natanz, senza considerare che i raid israelo-americani non possono annullare le conoscenze atomiche, diffuse e longeve, della comunità scientifica iraniana.
5) Il Paese davanti al bivio atomico
Arricchire l’uranio al 60% come è stato in grado di fare l’Iran significa possedere il know-how abilitante a concentrazioni del 90%, tipiche degli ordigni, finora tabù per un ayatollah Ali Khamenei che da questa guerra preventiva e dalla mancanza di credibilità negoziale dell’Amministrazione Trump potrebbe aver maturato la convinzione che solo la bomba è garanzia di sopravvivenza di un regime altrimenti vulnerabile. Il modello da seguire non sarebbe più quello iracheno, libico o siriano, cedevole sulle armi distruzione di massa, ma quello pachistano e nordcoreano, divenuti intangibili grazie al perseguimento del deterrente nucleare. Fallita la difesa a mosaico, la strategia asimmetrica ed esposto all’interventismo occidentale, l’Iran è a un bivio: procederà a un test atomico o imboccherà la via negoziale?