sabato 4 giugno 2022
L'obiettivo dei «due Stati per due popoli» è sempre più lontano. E la realtà si è consolidata dentro uno status quo che nessuno vuole ma in cui tutti restano
Scontri a Hebron in Cisgiordania

Scontri a Hebron in Cisgiordania - Ansa

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Il 15 maggio 1948, il giorno dopo la proclamazione dello Stato di Israele, allo scadere del Mandato britannico, gli eserciti di Egitto, Siria, Trangiordania, Iraq e Libano, contrari alla spartizione della Palestina prevista dal Piano Onu del 1947, accolto invece dagli israeliani, attaccarono, insieme, il nuovo Stato ebraico. Da allora sono passati 27.049 giorni, quattro guerre arabo-israeliane, due con il Libano, due Intifada, numerose operazioni nella Striscia di Gaza e migliaia di morti (che stime approssimative attestano a circa 24.000 israeliani e 91.000 arabi).

Negli anni, Israele è riuscita a disarmare i confini costruendo rapporti di pace, memorandum di intesa e partnership commerciali con i vicini regionali (ultimi – ma non ultimi – gli Accordi di Abramo, rinsaldati questa settimana dalla firma di un patto di libero scambio con gli Emirati Arabi Uniti). Sul fronte interno è andata decisamente peggio, e il conflitto con i palestinesi resta un nodo irrisolto. La soluzione che prevede “due Stati per due popoli” è l’orizzonte cui le diplomazie occidentali continuano a guardare con speranza. Con gli anni, però, una malta di fallimenti e prese d’atto ha consolidato uno status quo che a nessuno piace ma che tutti, in fondo, cercano.

Da qualche tempo circolano con insistenza teorie-placebo sulla normalizzazione dello scontro: hanno il sapore (amaro) della consolazione ma convincono. La più strutturata è quella di Micah Goodman, ascoltato (anche dall’attuale governo Bennett) intellettuale israeliano, che ha messo a punto la dottrina della “contrazione del conflitto”.

L’idea di base è tanto semplice quando funzionale: se in più di 70 anni non si è riusciti a risolvere il problema dell’occupazione, l’unica cosa che resta da fare è «restringerla», «minimizzarla». Esattamente quello che sta succedendo. Israele ha un governo senza maggioranza, conquistato per miracolo, che non può assumere decisioni dirimenti. I palestinesi non hanno, in pratica, rappresentanza (non è un caso che da 16 anni non vengano chiamati a votare).

L’Anp è forse al punto più basso di tutta la sua storia: la dirigenza, affidata a un presidente anziano e debole – Abu Mazen – è costantemente sfidata dall’aggressività ideologica, e purtroppo non solo, del gruppo Hamas. E il gruppo Hamas, sempre più scollato dalla sua gente, dentro e fuori Gaza, cerca di guadagnare consensi nell’unico modo che conosce: la violenza.

Il prodotto di questo stallo è sotto gli occhi di tutti. I due governi, quello israeliano e quello palestinese, dialogano, smettono di dialogare – giorni fa l’Anp ha di nuovo minacciato di interrompere i rapporti, rivedendo il riconoscimento dello Stato ebraico –, ricominciano. Soprattutto, fanno i conti con le spinte estremiste che ciclicamente deflagrano.

L’anno scorso, le tensioni nelle città miste sono state prontamente alimentate e indirizzate da Hamas, e lo scontro è arrivato fino alle due settimane terribili di Gaza. Quest’anno, il mese di Ramadan è stato accompagnato da un’ondata di attentati – con epicentro in Cisgiordania – costati la vita a 19 persone in Israele. In mezzo ci sono stati 12 mesi in cui a israeliani e palestinesi è toccato continuare a convivere, senza che al mondo interessasse un granché. Il “conflitto contratto”, probabilmente. La soluzione, ingiusta ma possibile, della non-soluzione.




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