Maduro sfida la portaerei Usa: «Lotta armata all'America»
Il presidente venezuelano annuncia la mobilitazione di uomini e mezzi per proteggere le «infrastrutture strategiche» del Paese

Anche il più distratto dei passanti può notare il via vai di armi, corte o larghe che siano, non importa, che da decenni scandisce la vita quotidiana a Caracas e dintorni. Militari in divisa, agenti in borghese e gruppi irregolari fanno delle armi uno “status symbol” per incutere timore, rispetto o ammirazione negli altri, là dove pistola e virilità spesso si confondono tra loro. Tuttavia la società venezuelana non aveva mai sentito parlare di «mobilitazione generale di forze e mezzi», come annunciato martedì sera dal presidente Nicolás Maduro, in risposta al «massiccio spiegamento di forze degli Stati Uniti nelle acque dei Caraibi». Ergo: con l’arrivo del gruppo da battaglia della portaerei Gerald R. Ford – accompagnata da navi da guerra e 4mila soldati –, ora nell’area di controllo del South Command, le cose cambiano e Caracas annuncia una nuova fase del “Plan Independencia 200”, mobilitando 200mila effettivi delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb). L’incarico è quello di proteggere «infrastrutture strategiche» come centrali elettriche, vie di comunicazione, trasporti e servizi essenziali «senza dipendere da nessuno, né inginocchiarsi davanti a nessuno», ha detto Maduro. Ma non solo. Il delfino di Chávez ha anche promulgato una legge, che istituisce i cosiddetti comandi per la difesa della nazione, cioè nuclei armati pronti a intraprendere azioni contro attacchi sia «esterni» che «interni».
Fonti di Caracas assicurano che, in caso di azione militare statunitense, vi sarebbero azioni di guerriglia e sabotaggio volte a rendere il contesto «sempre più instabile per l'invasore». Al momento però il presidente Usa Donald Trump non si sbilancia. Preferisce temporeggiare: dice di non volere la guerra ma di essere pronto a vincerla, nell'eventualità, «in maniera rapida e violenta». Il tycoon se la prende con comodo: pungola Maduro e punta sull'esaurimento nervoso dei vertici politici e militari. Non per rovesciarli – policy che la direttrice Cia Tulsi Gabbard ritiene superata -, bensì per entrare in possesso delle riserve naturali del Paese, che comprendono petrolio, gas, oro e coltan. A preoccuparsi non è soltanto l'«Asse del male», guidato da Mosca e Pechino, ma anche l'Unione Europea che, insieme ai Paesi Celac, ha recentemente condannato le azioni unilaterali – senza espliciti richiami agli Usa – evocando il rispetto del Diritto internazionale.
Del resto l'ostilità di Trump contro Caracas non si limita alle azioni belliche né alle esecuzioni extragiudiziali nei Caraibi, ma si manifesta anche in politiche deliberatamente xenofobe nei confronti dei migranti venezuelani.
È il caso della revoca della Protezione temporanea (Tps), che ha colpito 600mila beneficiari, e delle espulsioni di massa, che trovano nella Cecot, de El Salvador, il loro emblema più drammatico. «Torture e altri gravi abusi, comprese violenze sessuali», sono state denunciate di recente da Human Rights Watch e dall'Ong salvadoregna Cristosal.
«Ero caduto in depressione, volevo uccidermi, perché pensavo che sarei stato meglio da morto», ha denunciato uno dei quaranta ex-prigionieri intervistati, che hanno denunciato minacce e uso di celle di isolamento come punizione. Danni collaterali, direbbe qualcuno, di una guerra già in corso, non contro uno Stato terzo ma contro l'umano stesso.
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