L'ufficiale che invita i 60mila riservisti a rifiutarsi di combattere a Gaza
Il capitano Yoyam Vilk, tra i fondatori di "Soldiers for the hostages", ha rivolto un appello ai 60mila chiamati che dovrebbero entrare in servizio martedì: «Questo è il momento di dire

«Sono sionista. Israele ha diritto di opporsi ai suoi nemici. Non sono pacifista e non mi pento di essere stato nell’esercito. Ma, proprio per questo, dico con cognizione (...) Rifiutare di combattere non significa tradire lo Stato. È l’unico modo per salvarlo ». È difficile – «molto difficile», ammette – per il capitano Yotam Vilk pronunciare queste parole. L’appello, pubblicato sul New York Times e rilanciato in un colloquio con Avvenire, arriva alla vigilia del termine fissato dal governo di Benjamin Netanyahu per il reclutamento di altri 60mila riservisti e l’estensione del servizio ad altri 20mila. L’obiettivo è schierare 130mila truppe, fondamentali per l’offensiva su Gaza City. Un’azione «sconsiderata»: «Non una mossa militare ponderata, ma il sintomo della dipendenza dall’occupazione da parte di un governo che sa solo distruggere, non costruire», sostiene l’ex militare, impegnato per oltre un anno nella Striscia prima come comandante di plotone di fanteria meccanizzata e poi come vice-comandante di compagnia. «Ho guidato manovre di terra all’interno della Striscia, ho conquistato roccheforti di Hamas e ho contribuito a smantellare i tunnel, i depositi di armi e i posti di comando del gruppo», racconta. Con il trascorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi, quasi degli anni, però, Yotam Vilk ha maturato la consapevolezza di non battersi per difendere i propri cari e il Paese minacciato dal terrorismo. Bensì per tenere al potere una maggioranza di «populisti e nazionalisti, i quali rifiutano di prendere le decisioni necessarie e di pagarne il prezzo politico. Pretendono, al contrario, che siamo noi, i soldati, a farlo, con il sangue» in un conflitto «senza scadenza, senza obiettivi raggiungibili, senza una strategia di uscita».

Nel frattempo, «Gaza è diventata una zona senza legge, con scarsa supervisione militare efficace e quasi nessuna responsabilità personale per i soldati». Da qui la scelta dell’allora vice-comandante Vilk di aderire alla lettera-manifesto dello scorso ottobre in cui 130 soldati si sono dichiarati in sciopero fino a quando non fosse stato raggiunto un accordo per la liberazione degli ostaggi. Questi “signornò” sono stati i pionieri di “Soldiers for the hostages”, gruppo in prima linea per la fine della guerra. Tutti, a cominciare da Vilk, sono stati sospesi dalle rispettive unità. Non è, però, pentito della propria decisione. «Il rifiuto pubblico è un atto quasi impensabile nella società israeliana, dato il ruolo centrale dell’esercito – sottolinea –. In qualunque democrazia, però, il potere militare è importante quanto pericoloso. Deve essere a servizio degli obiettivi politici, non sostituirli, divenendo fine a se stesso». Quando il rapporto si capovolge, non solo le vite umane, ma «ciò che Israele è e rappresenta, la sua essenza, le istituzioni» sono a rischio. In questi momenti non rimane che la protesta per forzare il cambio di rotta. Quella dei riservisti – dato il prestigio dei militari – è determinante, secondo Vilk il quale rivolge una forte esortazione ai 60mila chiamati alle armi entro martedì. « Rifiutatevi di presentarvi», chiede “Soldiers for the hostages”.
Al termine del servizio militare obbligatorio, gli israeliani possono essere richiamati fino circa a quarant’anni. I riservisti rappresentano i due terzi delle forze armate di Tel Aviv. Ormai al quarto turno, la gran parte è esausta. Già da mesi, molti optano per il “diniego grigio”: trovano, cioè, giustificazioni mediche o professionali per non arruolarsi. Un tasso, fino alla primavera, intorno al 30 per cento che, dall’estate, ha raggiunto il picco di quasi il 50 per cento. Per evitare il ripetersi di simili percentuali di rifiuto, come confermano ad Avvenire fonti militari, le autorità hanno spedito i cosiddetti “ordini 8”, cioè la convocazione, solo a quanti, contattati previamente per telefono, hanno dato disponibilità. Non si sa quanti ne siano stati realmente inviati e, dunque, quanti indosseranno l’uniforme martedì. «Molti rimangono in silenzio – conclude Yotam Vilk –. Questo è il momento di parlare. È vostro dovere».
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