In Africa la crisi del Mali è l'ultimo caso di guerra ibrida
Italia e Francia hanno invitato i propri cittadini a lasciare il Paese. Nel Sahel si combatte un conflitto dove non contano solo le armi, ma anche il controllo delle rotte commerciali e delle risorse minerarie

La crisi in Mali ha assunto una dimensione che trascende la tradizionale logica del conflitto armato, configurandosi come un laboratorio geopolitico della guerra ibrida nel Sahel. E dopo l’Italia e altri Paesi, anche l’ex potenza coloniale francese ha invitato i propri cittadini a lasciare il Paese. L’offensiva del Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim), formazione jihadista affiliata ad al-Qaeda, segna il passaggio da una strategia di conquista territoriale a una di erosione sistematica delle strutture vitali dello Stato. In questo quadro, il carburante – risorsa logistica per eccellenza – è divenuto lo strumento principale di un assedio economico volto a destabilizzare il regime di transizione guidato dal colonnello Assimi Goïta, al potere dopo i colpi di Stato del 2020 e del 2021, che hanno estromesso l’alleato storico francese dal Paese.
Dallo scorso settembre, il Jnim ha intensificato gli attacchi contro i convogli di rifornimento provenienti dal Senegal e dalla Costa d’Avorio, paralizzando la distribuzione di carburante verso Bamako. la capitale che conta oltre 3 milioni di abitanti. Tale strategia di strangolamento, definita da molti analisti “jihad economico”, ha generato effetti devastanti: paralisi dei trasporti, chiusura di scuole e ospedali, blackout diffusi e inflazione galoppante. La capitale, un tempo percepita come ultimo bastione di stabilità, è oggi l’epicentro di una crisi che mina la coesione sociale e la fiducia nei confronti dello Stato. La decisione del Jnim di colpire l’economia anziché limitarsi al fronte militare rivela una profonda evoluzione tattica. L’obiettivo non è più la conquista territoriale immediata, ma la disarticolazione dell’autorità statale attraverso la privazione delle risorse essenziali e l’indebolimento del consenso politico. Parallelamente, la pratica dei sequestri di stranieri e funzionari locali – con richieste di riscatto in denaro o armi – alimenta un’economia di guerra che sfugge a ogni controllo governativo.
Il regime del golpista Goïta, sostenuto da unità paramilitari russe riconducibili all’Africa Corps (erede del gruppo Wagner), ha risposto con operazioni mirate alla riapertura delle rotte commerciali, ma vaste aree del Mali centrale e settentrionale restano fuori dal controllo di Bamako. La popolazione civile affronta un deterioramento crescente delle condizioni economiche e umanitarie. In questo contesto di instabilità, la galassia jihadista saheliana coinvolge anche Niger e Burkina Faso. I principali gruppi antigovernativi sono quattro, tutti di matrice islamista. Il primo è il Jama’at Nusrat al-Islam wa al-Muslimeen (Jnim), un’organizzazione-ombrello che riunisce Ansar al-Din, al-Qaeda nel Maghreb islamico, al-Mourabitoun e Katibat Macina, e rappresenta la rete più radicata sul piano territoriale e culturale.
Accanto ad esso opera lo Stato Islamico nel Grande Sahara (Isgs), ramo regionale del cosiddetto Stato Islamico, attivo tra Mali, Niger e Burkina Faso. I rapporti tra Jnim e Isgs, spesso conflittuali, riflettono la competizione per il controllo delle rotte commerciali e delle risorse minerarie. Un terzo attore, lo Stato Islamico Provincia dell’Africa Occidentale (Iswap), nato da una scissione del gruppo nigeriano Boko Haram, agisce nella regione del Lago Ciad, gestendo i territori sotto il proprio controllo come micro-stati jihadisti: impone tasse, amministra servizi e tenta di legittimarsi politicamente. Una presenza più discreta ma significativa è quella di Hezbollah, che attraverso membri della diaspora libanese mantiene reti di finanziamento illecito e riciclaggio di denaro legate al traffico di oro, diamanti e stupefacenti, tra Sahel meridionale, Guinea, Costa d’Avorio e Sierra Leone. La sovrapposizione di queste reti – alcune ispirate ad al-Qaeda, altre allo Stato Islamico – produce un quadro frammentato e mutevole, in cui alleanze e rivalità dipendono da risorse, clan e contesti etnici. Molti gruppi locali, un tempo marginali, hanno aderito al jihadismo sfruttando la sua retorica globale come marchio di legittimità.
Dopo l’11 settembre, la “War on Terror” ha infatti favorito una sorta di franchising del terrore, in cui le formazioni regionali hanno adottato simboli e linguaggi delle grandi reti internazionali per ottenere visibilità. Oggi, queste stesse formazioni penetrano nei circuiti sociali rurali, offrendo protezione e identità dove lo Stato è assente o ostile. L’insicurezza prodotta da questa espansione è crescente. Gli Stati costieri del Golfo di Guinea — dalla Costa d’Avorio al Benin — osservano con timore l’avanzata verso sud della “linea rossa” jihadista, mentre la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) riconosce la necessità di un dialogo con le giunte di Mali, Niger e Burkina Faso, finora mancato. Solo un approccio concertato, capace di integrare sicurezza, sviluppo e diplomazia, potrà garantire la sopravvivenza delle popolazioni saheliane – musulmane, cristiane e animiste – oggi ostaggio di gruppi fondamentalisti che approfittano del disinteresse internazionale, concentrato su Ucraina e Medio Oriente.
In questo scenario, il Mali è il punto più fragile e al tempo stesso emblematico della crisi saheliana: un Paese dove la guerra non si combatte più solo con le armi, ma con il controllo delle risorse, dei bisogni e del tempo. Una guerra silenziosa che trasforma la povertà in potere, mentre Bamako, sempre più isolata, appare come una capitale assediata non tanto dai fucili, quanto dalla fame e dal logoramento. In tutto ciò, l’interferenza dei grandi attori globali – Stati Uniti, Cina, Russia e le “petromonarchie” del Golfo – aggiunge un ulteriore livello di competizione in quella che appare come la nuova frontiera geopolitica dell’Africa post-coloniale, soprattutto dopo il ridimensionamento della presenza francese nello scacchiere regionale.
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