Il ricercatore Ahmadreza Djalali è di nuovo nel carcere di Evin
Il medico svedese-iraniano, condannato a morte con accuse di spionaggio, è ricomparso dopo un periodo in una località segreta. Riccardo Noury (Amnesty): «È un segnale di speranza. Ma non sappiamo nulla della sua salute»

«Il fatto che Ahmadreza Djalali sia ancora in vita è già una notizia che dà un po’ di speranza». Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sceglie parole misurate per parlare del medico svedese-iraniano detenuto da anni nella prigione di Evin, a Teheran. Il 24 giugno era stato trasferito dal carcere della capitale a una località ignota. Dopo mesi di silenzio e di paura, la conferma del suo rientro a Evin è arrivata il 25 settembre dalla moglie, Vida Mehrannia, con un post sul social X. «Sappiamo che Djalali è tornato nel carcere di Evin – spiega Noury – ma non abbiamo notizie sulle sue condizioni né sulla possibilità di comunicare con la famiglia».
Djalali, ricercatore e medico specializzato in medicina dei disastri, ha insegnato in Belgio, Svezia e Italia. È detenuto dal 2016, quando venne arrestato arbitrariamente durante un viaggio d’affari in Iran e poi accusato di spionaggio a favore di Israele. Un’accusa ricorrente, usata dalle autorità iraniane per giustificare incarcerazioni arbitrarie con prove prefabbricate. In una lettera scritta dal carcere nel 2017, Djalali raccontò di essersi rifiutato di collaborare con i servizi segreti iraniani, subendo torture, minacce e lunghi periodi di isolamento.
Il suo processo, secondo Amnesty International, è stato «gravemente iniquo»: confessioni estorte sotto tortura, nessun avvocato indipendente e una condanna a morte che pende tuttora sul suo capo. Per l’organizzazione, il caso Djalali è emblematico di una strategia di “presa di ostaggi” usata da Teheran per ottenere vantaggi diplomatici o scambi di prigionieri. Quando nel dicembre 2023 la Corte d’appello svedese ha confermato l’ergastolo per l’ex funzionario iraniano Hamid Nouri, i media di Stato iraniani hanno diffuso un video di propaganda con le confessioni forzate di Djalali. Poi, nel giugno 2024, lo scambio di prigionieri tra Iran e Svezia: alcuni cittadini svedesi sono tornati a casa, Nouri è rientrato in Iran. Ma Djalali è rimasto a Evin, dove, a maggio di quest’anno, ha subito un infarto senza ricevere cure mediche adeguate.
«Le esecuzioni in Iran – denuncia Noury – hanno superato quota mille nei primi nove mesi dell’anno, soprattutto per reati di spionaggio e per accuse legate alla sicurezza dello Stato. Le vittime appartengono in gran parte alle minoranze curda, afghana e beluca». Nemmeno il cessate il fuoco con Israele ha rallentato la repressione: «Anzi – aggiunge – la pena di morte e la detenzione arbitraria restano strumenti di intimidazione politica».
Una timida apertura, racconta Noury, si è intravista a giugno, quando venti ostaggi – tra cui le italiane Alessia Piperno e Cecilia Sala – hanno firmato un appello congiunto ai governi europei. «L’Iran – spiega – faceva intendere di poter liberare alcuni prigionieri in cambio dell’arrivo di medicinali destinati ai malati di epidermolisi bollosa. Era un segnale, purtroppo rimasto inascoltato».
Dati ufficiali parlano di 21.000 persone arrestate dopo la guerra di dodici giorni contro Israele, con l’accusa di spionaggio e almeno undici esecuzioni per lo stesso motivo. «Chi possiede un doppio passaporto o un passaporto occidentale corre un rischio altissimo – avverte il portavoce di Amnesty International Italia – perché può diventare una pedina nel gioco diplomatico di Teheran. È la stessa diaspora iraniana a sconsigliare di viaggiare nel Paese per non alimentare questo meccanismo».
Un discorso a parte merita la condizione delle donne. «In Iran – spiega Noury – esiste un vero e proprio apartheid di genere, ma non nella pena capitale: è il Paese con il più alto numero di donne giustiziate al mondo. Quest’anno sono almeno 29. La maggior parte è stata condannata per omicidio o per reati legati alla droga». Molte di loro erano vittime di violenza domestica che lo Stato non ha mai protetto, «e che alla prima occasione mette a morte quando trovano il modo estremo di ribellarsi».
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