Foumia, Najwa, Saad: le storie di chi è stato ucciso nella chiesa di Gaza
Le due donne, una di 82 e 69 anni, uccise insieme all'amico nel raid della settimana scorsa. Il Papa ha ricordato i loro nomi all'Angelus di domenica, la nipote Musa spiega chi erano ad “Avvenire”

«Voglio raccontarvi dei miei cari perché li ho amati. Ma non solo per questo. La loro è la storia dell’intero popolo di Gaza. Di tutti coloro la cui ricerca di sicurezza, assistenza, dignità è spezzata di continuo dalla violenza e dall’indifferenza. Sono tanti, troppi. Eppure, nonostante questo, provano a conservare la speranza». Non è facile contattare Musa Ayyad. A Gaza City, dove il 40enne, padre di quattro figli, si trova attualmente, Internet e la linea telefonica vanno a singhiozzo. La comunicazione si interrompe di continuo. Domande e risposte si intrecciano in un confuso via vai di messaggi di testo, audio e chiamate. Musa, tuttavia, non demorde. È il suo omaggio alle due parenti – Foumia Issa Latif Ayyad, 82 anni e Najwa Abu Daoud, 69 anni – uccise giovedì nel raid dell’esercito israeliano sulla parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza City, da oltre ventidue mesi rifugio per 541 profughi. Tra loro lo stesso Musa, infermiere e, per questo, fra i primi a cercare di soccorrerle. Invano purtroppo.
«Foumia era mia zia. Per oltre quarant’anni è stata docente e preside di una scuola dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) a Gaza City. Amava insegnare. Sentiva una responsabilità fortissima verso gli alunni. Un po’ come se fossero i figli che non aveva avuto. Ha continuato a sentirli anche dopo essere andata in pensione», spiega. Il crollo del tetto della chiesa l’ha colta mentre era nel cortile della Sacra Famiglia: è morta sul colpo. Najwa, invece, si è spenta alcune ore dopo nell’ospedale al-Alhi, dove era stata ricoverata già in gravissime condizioni. «Era la cugina di mio padre. Gli ultimi tempi erano stati molto duri per lei. Il figlio, Hani Abu Dahoud, è morto alcuni mesi fa per insufficienza renale a causa del collasso degli ospedali per la guerra. Nel nord era impossibile accedere alla dialisi. Aveva, così, dovuto spostarsi a sud ma non era cambiato nulla. Neanche là era riuscito ad ottenere un trattamento. La mancanza di cure l’ha ucciso. Poco dopo è toccato al marito di Najwa, stroncato da un cancro: ricevere assistenza medica, anche solo una diagnosi, per non parlare di una terapia, è impossibile ormai. Pure lei, alla fine, si era ammalata: si era fratturata varie ossa in una caduta, poi era sopraggiunto un tumore. Aveva, però, resistito alla malattia: sembrava stare meglio. Purtroppo c’è stata la cannonata». Il proiettile ha ucciso anche Insieme all’amico Saad Issa Kostandi Salameh, 60 anni, una delle colonne della Sacra Famiglia. «Un buon amico. Era sempre stato un cristiano impegnato, a lungo aveva lavorato per il Consiglio delle Chiese di Gaza. Quando la guerra ha trasformato la parrocchia in un rifugio per centinaia di fedeli, Saad ha cercato di dare una mano in tutti i modi. La gran parte della sua famiglia era riuscita a scappare all’estero. Mi dispiace che nessuno abbia potuto stargli accanto negli ultimi momenti né abbia potuto partecipare ai funerali». Hanno dovuto celebrarli subito, nell’adiacente chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, comunità a cui appartenevano le tre vittime e anch’essa casa di duecento rifugiati. Troppo il caldo e nessuna refrigerazione per conservare le salme.
Ad accompagnarli, però, c’erano i fratelli e le sorelle con cui hanno vissuto fianco a fianco per quasi due anni. Persone come Musa, il quale considera la memoria di chi se n’è andato una responsabilità forte ora che le morti sono ridotte a macabra contabilità. Oggetti, abiti, perfino le foto sono andati persi. Ormai i corpi sono troppo provati per nuovi scatti. Musa preferisce, dunque, non condividere immagini dei suoi cari uccisi. Vorrebbe, però, continuare a raccontare. I messaggi, d’un tratto, smettono di arrivargli: la spunta rimane grigia. Aveva detto che sarebbe potuto accadere. «Se non mi senti o s’è interrotta la linea o un ordigno mi ha colpito».
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