Dopo le università ora tocca ai musei: Trump “commissaria” lo Smithsonian
Il tycoon punta sull'istituzione culturale più grande al mondo per espandere la sua campagna di revisione culturale. E trova un accordo con Harvard

La Smithsonian Institution non è un’istituzione pubblica qualsiasi: con i suoi 21 musei, 21 biblioteche, 14 centri di ricerca, uno zoo e 156 milioni di opere d’arte in dotazione, in gran parte a Washington e New York, rappresenta il più grande complesso museale del pianeta. Ogni anno registra in totale quasi 17 milioni di visitatori. Per gli americani è l’ «attico della nazione», così ne parlava Mark Twain a fine Ottocento, che offre al mondo la visuale storica e culturale più ampia e bella degli Stati Uniti. Mettere mano all’inventario degli oggetti che porta in esposizione equivale, in un certo senso, a toccare l’anima del Paese. L’approccio esercitato dal presidente Donald Trump in questa manovra, però, non è leggero. A marzo scorso, il tycoon aveva firmato un ordine esecutivo in cui affidava al vicepresidente JD Vance, membro del consiglio direttivo dello Smithsonian, il mandato di ripulire l’istituto dall’ «ideologia divisiva» che l’aveva permeato fino a farne un megafono della narrativa «incentrata sulla razza» che dipinge «i valori americani e occidentali come intrinsecamente dannosi e oppressivi».
Un affronto al “politicamente corretto”, in sostanza, e a tutti i suoi derivati come gender e cancel culture. All’ordine della Casa Bianca non seguirono, tuttavia, riforme degne di nota. Trump è tornato alla carica martedì scorso con una lettera in quattro pagine, indirizzata al segretario dell’istituto, lo storico Lonnie Bunch, che detta tempi e contenuti di una revisione ampia non solo delle collezioni permanenti ma anche delle mostre, dei materiali divulgativi, delle linee guida sugli standard narrativi, dei piani per i prossimi tre anni. L’Amministrazione vuole mettere il naso anche nei documenti interni come i manuali per gli impiegati, la descrizione delle mansioni, gli organigrammi e, ça va sans dire, i budget. «Il nostro obiettivo non è interferire con le operazioni quotidiane di curatori o personale – mette le mani avanti – ma sostenere una visione di eccellenza che metta in risalto rappresentazioni storicamente accurate, stimolanti e inclusive del patrimonio americano». Pochi giorni prima, a proposito di accuratezza, il National Museum of American History aveva rimosso un pannello che, nell’ambito dell’esposizione “The American Presidency: A Glorious Burden”, faceva riferimento ai due impeachment di Trump, mossa che aveva suscitato proteste e accuse di censura contro il museo. La direzione ha negato di aver ricevuto pressioni per far sparire l’installazione sottolineando che la sua rimozione era solo temporanea. Pochi giorni dopo, è stata ripristinata ma in una posizione meno vistosa e con modifiche al testo. Lo Smithsonian ha confermato di aver ricevuto la missiva presidenziale e di «voler continuare a lavorare in modo costruttivo con la Casa Bianca» mantenendo ferma la dedizione alla neutralità politica e al racconto «imparziale dei fatti e della storia».
Trump è entrato a gamba tesa non solo nell’“attico” della cultura americana ma anche, lo ricordiamo, nei campus universitari più prestigiosi. Con orgoglio, ieri, ha sottolineato di aver «sradicato» la cultura woke anche dal Kennedy Center, il “tempio” della musica. Il contenzioso con Harvard, accusata di essere un bastione dell’antisemitismo e del progressismo potrebbe risolversi con un accordo da 500 milioni di dollari. Nel frattempo è stato deciso che la Casa Bianca ospiterà l’anno prossimo, in occasione della festa per i 250 anni degli Usa, un incontro in gabbia di arti marziali miste. È questa, ci si chiede, la cultura gradita a Trump?
© RIPRODUZIONE RISERVATA






