Usare Dio per il potere riduce il mistero a ideologia
Le guerre di questo tempo ripropongono la tentazione di sfruttare la religione come strumento di dominio. Ma il divino non ci appartiene, e proprio per questo può salvarci

Quando Dio viene fatto strumento per giustificare guerre e scontri ecco allora che si inverano al contrario le parole della Genesi. Nella storia, e ancora oggi, il nome di Dio è stato invocato per giustificare guerre, repressioni e violenze. Yahweh, Allah, Cristo, Buddha: tutti, a seconda delle epoche e delle culture, sono stati piegati a logiche umane, trasformati in vessilli ideologici o in bandiere di conquista. Le crociate medievali, le guerre di religione europee, il fondamentalismo jihadista, ma anche i nazionalismi contemporanei che brandiscono simboli religiosi come strumenti di potere, dimostrano quanto il divino venga costantemente manipolato.
Ciò che dovrebbe unire e trascendere diventa così un’arma che divide e opprime. E mai come in questi primi decenni del terzo millennio questo tema ha dominato purtroppo le cronache e la storia dell’umanità a ogni parallelo: dal feroce fondamentalismo islamico dell’Isis a quello dell’attuale governo afghano, passando per la teocrazia iraniana, il fondamentalismo induista oggi al potere in India, quello buddista che domina in Sri Lanka. Fino alla visione e prospettiva di fondo che guida il governo di Israele, identica – seppure contraria – a quella di Hamas e degli Hezbollah, “Partito di Dio” appunto. E anche la vicenda dell’uccisione di Charlie Kirk negli Stati Uniti, che faceva della sua fede cristiana un vessillo per legittimare una sorta di primato del cristianesimo – il suo, di cristianesimo – sulle altre religioni, ne è purtroppo una triste prova.
Tra i molti peccati che la tradizione religiosa e filosofica attribuisce all’uomo ce n’è uno che li racchiude tutti: la pretesa di aver creato Dio a propria immagine e somiglianza. Un rovesciamento che stravolge il dettato biblico originario («Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza», Genesi 1,26) e che tradisce la vocazione più autentica del rapporto con il divino. Questo ribaltamento è la radice di una lunga storia di idolatrie. L’uomo, incapace di sopportare il peso della propria finitezza, ha preferito costruirsi un Dio che gli assomigliasse, che ne giustificasse pulsioni e paure, che ratificasse il potere, la guerra, la vendetta. Così il Dio della misericordia si è trasformato nel Dio della punizione; il Dio della libertà è divenuto garante dell’oppressione. Blaise Pascal lo aveva intuito con lucidità: «L’uomo non ha mai creato un Dio che non fosse a sua immagine: collerico e vendicativo come lui stesso». E se guardiamo ancora alla cronaca, vediamo come le parole di Feuerbach trovino conferma: chi rifiuta questa proiezione – chi osa affermare che Dio non può essere ridotto a ideologia o strumento di potere – viene spesso emarginato, ridicolizzato, o addirittura eliminato. È la storia che si ripete: i profeti autentici sono sempre i più scomodi. Nietzsche, spingendo oltre la critica, denunciò il rischio che un Dio così concepito diventasse una maschera per l’impotenza: «Dio è stato creato come contrapposizione alla vita, per negarla». Il suo celebre annuncio della “morte di Dio” non era tanto la scomparsa del divino in sé quanto la fine del Dio inventato dall’uomo per controllare sé stesso e gli altri.
Ma è forse Dostoevskij a descrivere con maggiore forza narrativa le conseguenze di questo peccato. Nel Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov, Cristo che ritorna sulla terra viene arrestato e condannato proprio dalla Chiesa, che lo giudica pericoloso perché troppo libero. L’istituzione religiosa aveva trasformato Dio in strumento di dominio, costruendolo a immagine delle necessità del potere. Così il mistero si era ridotto a ideologia, la fede a strumento di controllo. In questo senso, il più grande peccato dell’uomo non è l’ateismo ma l’idolatria. Non l’aver rifiutato Dio ma averlo ridotto, manipolato, piegato. Aver scambiato l’infinito con una proiezione delle proprie miserie. Aver dimenticato che, come scriveva Simone Weil, «il vero Dio non può essere altro che l’Altro assoluto, mai confondibile con ciò che l’uomo desidera o immagina».
Il rischio è ancora attuale. In un mondo dominato dalla tecnica e dall’intelligenza artificiale l’uomo sembra voler replicare lo stesso peccato originario: proiettare nelle proprie creazioni un riflesso divino, attribuire loro onnipotenza, piegarle ai propri bisogni di dominio. Ma così facendo perde non solo Dio: perde anche sé stesso. Perché se il divino è ridotto a specchio delle fragilità umane, l’uomo non trova più un orizzonte che lo superi, un mistero che lo chiami oltre i propri limiti. Ecco allora la contraddizione: l’uomo che avrebbe dovuto elevarsi a Dio si è accontentato di abbassare Dio a uomo. Ha scambiato l’anelito al trascendente con il culto di sé stesso, trasformando la religione in ideologia, la fede in strumento, il mistero in caricatura.
Forse il compito più urgente, oggi come ieri, non è negare Dio ma salvarlo dalle proiezioni umane. Restituire al divino il suo volto autentico, irriducibile alle nostre somiglianze. Riconoscere che l’uomo non è misura del cielo ma solo pellegrino verso di esso. Come scriveva sant’Agostino: «Se lo comprendi, non è Dio». Il più grande peccato dell’uomo resta dunque questo: aver voluto farsi Dio a sua immagine e somiglianza. Ma in questa stessa consapevolezza si nasconde la possibilità di redenzione: ricordarsi che il divino non ci appartiene, non ci somiglia, e proprio per questo può salvarci.
* Presidente Associazione “Cultura Italiae”
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