Trump decisivo per la tregua a Gaza, adesso tocca all'Europa
Dopo l'accordo tra Israele e Hamas deve essere chiaro a tutti che ricostruire non significa solo rimuovere macerie. La ricostruzione dovrà essere anche politica, sociale, psicologica e umana

In questi giorni quante volte ci si è chiesto cosa sarebbe andato storto, quali sarebbero state le trappole, gli inciampi e le provocazioni che avrebbero fatto deragliare per l’ennesima volta le trattative per un cessate il fuoco a Gaza, facendo continuare la strage indicibile di donne, bambini e uomini palestinesi e protraendo la lunghissima prigionia degli ostaggi israeliani ancora vivi. E invece, a dispetto di ogni dubbio, abbiamo la firma per un cessate il fuoco che rappresenta il primo passo – solo il primo fra i tanti necessari – per arrivare a una pace stabile in Medio Oriente. E lo dobbiamo soprattutto alla volontà dell’attore più improbabile, a cui si dava poco o nessun credito: il presidente statunitense Donald Trump, il quale ha quasi letteralmente costretto il governo di ultra-destra israeliano a fermare il suo esercito, andando a stanare i leader dei Paesi arabi e islamici che in questi due anni, con poche eccezioni, si erano nascosti dietro una cortina di prudenza e di dichiarazioni formali.

Poco conta se la spinta per Trump ad agire e a volere a tutti costi la fine della guerra viene non sia venuta tanto dalle sofferenze degli abitanti di Gaza, quanto dalla sua voglia irrefrenabile di ricevere il Nobel per la Pace; a cui si è aggiunta l’irritazione seguita al folle bombardamento della capitale del Qatar da parte di Israele, che ha umiliato un alleato fondamentale per gli Usa e un partner per gli affari privati della sua famiglia. Ma quale che sia la motivazione, è assolutamente evidente che senza Trump non si sarebbe firmato questo accordo. E quindi come non unirsi, con il cuore, agli israeliani che in piazza festeggiano la speranza di riabbracciare i propri cari rapiti due anni fa, o almeno avere la possibilità di piangerne degnamente la morte. E come non gioire assieme alla massa di palestinesi affamati, laceri, privati di ogni bene materiale, quasi rassegnati ad aspettare che le bombe che hanno fatto strage di amici e familiari arrivassero a colpire anche loro. Ma quanto deve essere chiaro è che questo passo è solo il primo di un complicato processo che dovrà avvenire “step-by step”, ossia con l’attuazione reciproca da parte degli attori coinvolti dei vari punti del piano di pace. Sapendo che alcune questioni rimangono ancora molto oscure: cosa si intende per “ritiro israeliano” da Gaza, se parziale o totale, come disarmare Hamas e come rilanciare il ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese, che è fondamentale, ma che oggi affonda nella corruzione, nell’inerzia e nella mancanza di vera rappresentatività.
Essenziale sarà che la comunità internazionale torni a essere, per una volta, davvero una comunità e che ognuno faccia al meglio la sua parte. Gli Stati Uniti devono evitare di assecondare nuovamente le pulsioni peggiori di Israele, come fatto da Trump fino a poco tempo fa, vigilando per evitare che Netanyahu, incassato il ritorno degli ostaggi, non cerchi una scusa per riprendere la guerra. I Paesi arabi e musulmani della regione (dall’Egitto alla Turchia alle monarchie del Golfo) dovranno impegnarsi in prima persona, politicamente, finanziariamente, diplomaticamente, oltre a essere pronti a schierare forze di pace per gestire il dopo guerra nella Striscia. Ma anche l’Europa, che è stata così deludente, silente e divisa dinanzi agli orrori di questi due anni dovrà finalmente attivarsi. Per quanto debole nella gestione delle crisi, l’Europa ha una tradizione e una grande esperienza di impegno nella ricostruzione post conflitto. In particolare l’Italia, le cui forze militari sono sempre state apprezzate nelle missioni di stabilizzazione delle aree di crisi. Dobbiamo esserci, la disponibilità del governo sembra chiara, e dobbiamo esserci con impegno. Sapendo che la ricostruzione di Gaza sarà un impegno enorme, lungo e oneroso. Ma soprattutto deve essere chiaro a tutti, attori locali, regionali e internazionali, che ricostruire Gaza non significa solo rimuovere macerie e creare nuove case e infrastrutture. La ricostruzione materiale sarà solo un aspetto di una ricostruzione più olistica, che comprende la sfera politica, sociale, psicologica e umana. Dobbiamo nutrire e dare casa, scuole e ospedali a un popolo traumatizzato – come traumatizzata è la società israeliana dopo il 7 ottobre. Dobbiamo lavorare per ridurre i discorsi d’odio e di vendetta, attivando percorsi di giustizia riparativa. È fondamentale capire che non basta far sopravvivere i palestinesi: essi hanno diritto a una vita dignitosa. E a un lavoro, che implica adoperarsi per permettere nuovamente l’ingresso dei lavoratori palestinesi in Israele, di cui anche lo stato ebraico ha molto bisogno. Sarà un percorso lungo e difficile. E già in molti sono pronti a scuotere la testa e a dire – in caso di fallimento – “l’avevo detto io”. Ma oggi è tempo di gioire per il silenzio dei cannoni, e di lavorare assieme per dare alla pace una speranza reale.
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