Sposi, figli, fratelli: il Giubileo per verificare gli affetti
Un tempo di verifica dei rapporti quotidiani: invitando a liberare gli schiavi, rimettere i debiti e lasciar riposare la terra l’Anno Santo spinge a interrogarsi sul baricentro dei nostri legami

La vita di ogni giorno mette spesso in contraddizione la realtà della nostra esperienza con i princìpi in cui crediamo. Succede che non sappiamo come legare tra loro queste due dimensioni, e come declinare nelle nostre vicende la bellissima visione antropologica di cui siamo portatori. Se non vogliamo però che la fede si trasformi in semplice pratica religiosa incapace di influire sulla vita, dobbiamo accettare la sfida di una riflessione senza paure né preclusioni, in grado di toccare in primo luogo la concretezza delle nostre relazioni, iniziando da quelle familiari. Il Giubileo con le sue prescrizioni antiche e sempre nuove ci offre una traccia per fare insieme questa riflessione. Perché l’anno di grazia che stiamo vivendo parla a ogni dimensione della nostra vita, in primis le relazioni che intessono la nostra vita di ogni giorno. Ci conduce in questo viaggio la neuropsichiatra Mariolina Ceriotti Migliarese, firma cara ai lettori di Avvenire per altre sue fortunate serie di articoli che hanno poi dato vita ad apprezzati libri (come «L’alfabeto degli affetti» e «Perfetti imperfetti»).
La famiglia cammina insieme nel tempo. E il tempo è una dimensione particolare: si srotola impercettibilmente, giorno dopo giorno, con continuità, nella ripetizione di gesti e di parole, scandito dalla nostra quotidianità.
La quotidianità è la nostra dimensione: anche quando si verificano cambiamenti importanti (una nascita, una morte, un cambio di lavoro, una malattia), la frattura provvisoria che si crea nel nostro senso del tempo si ricompone sempre, integrando poco alla volta nella trama della nostra vita ciò che è accaduto, e portandoci a ritrovare l’equilibrio in una nuova “normalità”.
Questo fluire costante del tempo ci rassicura, ma è insieme fonte di una sottile inquietudine, perché in questo modo a tratti la vita sembra scivolare via dalle nostre mani. Per questo motivo sentiamo la necessità di individuare dei nodi, dei punti di ancoraggio ai quali fissare la narrazione della nostra storia: abbiamo bisogno di momenti “forti” che ci aiutino a segnare i passaggi più significativi della nostra vita; momenti necessari per celebrarli, ricordarli, risignificarli. Ci servono ritualità che diano ossigeno e vita al vivere quotidiano: abbiamo bisogno di alternare la ferialità con la festa, di celebrare gli anniversari, di stabilire riti personali ma soprattutto comunitari per fissare, sottolineare, dare valore a ciò che ci accade.
La Chiesa, in questo, è buona maestra: la celebrazione della domenica, il susseguirsi ben regolato dei tempi liturgici, la presenza di “tempi forti” come la Quaresima o l’Avvento, la celebrazione comunitaria dei momenti cruciali della vita attraverso i Sacramenti, l’addio a chi muore attraverso i riti funebri, rivelano tra le altre cose la saggezza di chi sa leggere nel profondo l’esigenza tutta umana di ancorare il tempo all’eterno.
Anche la proclamazione degli anni giubilari entra a buon diritto in questo orizzonte di saggezza, e lo fa con una ritmicità lenta, che ne rende più solenne la celebrazione: in questi tempi affannati e velocissimi un evento che si ripresenta solo ogni 25 anni assume in quanto tale il rilievo di un’occasione speciale, che ha colpito anche i non credenti; un’occasione da capire e da non perdere.
L’anno giubilare si prospetta come un anno di bilanci e nuovi inizi: anno in cui siamo invitati a rallentare, a “sostare” con la mente, a domandarci dove poniamo il baricentro della nostra vita. In questo anno speciale abbiamo l’opportunità di risanare le ferite presenti nel nostro cuore e nelle nostre relazioni, di lasciar cadere la zavorra delle incomprensioni, dei torti subiti e dei ricordi che inquinano la mente. È un anno di speranza, perché segna la possibilità di lasciar andare ciò che è stato e di aprirsi a ciò che verrà: un “lasciar andare” senza se e senza ma, gratuitamente, per Grazia.
Le principali prescrizioni proprie del Giubileo ebraico erano tre: far riposare la terra, dare la libertà agli schiavi e restituire le terre ai primitivi padroni (rimettere i debiti). Queste prescrizioni ci ricordano che il tempo non ci appartiene, che non possiamo mai considerarci padroni gli uni degli altri, e che non possiamo appropriarci dei beni della terra come se fossero un nostro possesso: tutti i beni, anche il tempo, ci vengono solamente affidati perché li facciamo fruttare a beneficio nostro e degli altri.
Ma cosa può dire tutto questo oggi alla famiglia e alla coppia che desiderano celebrare in modo non formale l’anno giubilare?
Il messaggio profondo che ci arriva da queste prescrizioni antiche è ancora oggi di grandissimo valore, anche se chiede di essere riletto con il linguaggio del nostro tempo, e articolato nello specifico quotidiano della nostra relazione con le persone e con le cose.
Possiamo diventare veri portatori di speranza se comprendiamo a fondo e iniziamo a far fruttare concretamente nella nostra vita le tre “indicazioni di rotta” che le prescrizioni contengono, provando a trasformarle in attitudini buone che possono rendere migliori le nostre relazioni.
Il messaggio profondo che ci arriva da queste prescrizioni antiche è ancora oggi di grandissimo valore, anche se chiede di essere riletto con il linguaggio del nostro tempo, e articolato nello specifico quotidiano della nostra relazione con le persone e con le cose.
Possiamo diventare veri portatori di speranza se comprendiamo a fondo e iniziamo a far fruttare concretamente nella nostra vita le tre “indicazioni di rotta” che le prescrizioni contengono, provando a trasformarle in attitudini buone che possono rendere migliori le nostre relazioni.
È questo il percorso che vorrei provare a tracciare nelle prossime settimane. Ogni prescrizione può darci infatti anche lo spunto per riflettere concretamente sui rapporti familiari che formano il tessuto vivo della nostra esistenza: rapporto di coppia, rapporto tra fratelli, rapporto tra genitori e figli. Sono relazioni vitali e indispensabili, che però purtroppo mancano talvolta di libertà, di pazienza, di perdono. Nelle prossime settimane desidero condividere un percorso che aiuti a riflettere sui tre punti che l’anno giubilare suggerisce, seguendo tre domande principali.
La prima domanda riguarda la liberazione dalla schiavitù. Che cosa, nelle relazioni familiari, ci tiene reciprocamente “in schiavitù”?
Ci sono atteggiamenti e pensieri che rendono pesanti e asfittici i nostri rapporti, ci sono pre-giudizi e letture rigide dell’altro, ci sono memorie soggettive che imprigionano. Può essere difficile allora sentirci pienamente liberi: liberi, anche se uniti, nel rapporto di coppia, nel rapporto tra fratelli, nel rapporto tra genitori e figli.
Ci sono atteggiamenti e pensieri che rendono pesanti e asfittici i nostri rapporti, ci sono pre-giudizi e letture rigide dell’altro, ci sono memorie soggettive che imprigionano. Può essere difficile allora sentirci pienamente liberi: liberi, anche se uniti, nel rapporto di coppia, nel rapporto tra fratelli, nel rapporto tra genitori e figli.
Il cuore della questione è maturare la percezione dell’inalienabile alterità dell’altro: coniuge, figlio, genitore, fratello. Un’alterità necessaria per rispettare la sua libertà, ma un’alterità non ovvia, quando le relazioni sono così prossime, quando si vive insieme e si cresce insieme.
La seconda domanda riguarda la remissione dei debiti. Nel mondo dei rapporti umani la remissione dei debiti è necessaria in tutte le relazioni; come scriveva un autore francese, infatti, «gli uomini non possono vivere insieme se non si perdonano a vicenda di essere solo ciò che sono».
Rimettersi i debiti l’un l’altro diventa però una sfida ineludibile quando ci si confronta con relazioni così strette come sono le relazioni familiari: superare gli inevitabili conflitti senza accumulare rancore e senza cedere alla tentazione di rompere il legame è un compito arduo, soprattutto se vogliamo che i nostri rapporti siano sempre vitali e non ci accontentiamo di semplici aggiustamenti di superficie.

La terza domanda è legata al “lasciar riposare la terra”. Nel mondo della velocità e dell’impazienza, che investe anche tutte le nostre relazioni, questa prescrizione ci suggerisce che è necessario imparare ad attendere. È necessario saper aspettare nella coppia, dove i tempi dell’uno e dell’altro spesso non riescono ad armonizzarsi; è necessario saper attendere con pazienza nel rapporto tra genitori e figli, nei quali non sappiamo più comprendere e rispettare i tempi lunghi della crescita. Con i figli viviamo oggi in un costante e allarmato presente, incapaci di ricordare che crescere è un processo lungo e contraddittorio, e che i frutti verranno se sappiamo anche aspettare, diminuendo il pathos, e rinunciando ai successi immediati e fragili che servono solo a rassicurarci sul nostro essere bravi genitori.
Ma soprattutto mi sembra oggi necessario tornare a riflettere su alcuni momenti di attesa particolari: il tempo che precede il matrimonio, il tempo che precede la nascita, e il tempo della vecchiaia, che precede la morte. Si tratta di momenti della vita che stanno perdendo il loro valore di attesa creativa e preziosa, per entrare sempre più nella dimensione del fare e dell’organizzare: organizzare il matrimonio diventa più importante che riflettere sul suo significato, e la gravidanza diventa tempo per organizzare la nascita, piuttosto che tempo necessario per anticipare nella mente l’incontro con il proprio figlio. La vecchiaia infine diventa solo un tempo spaventato da riempire con affanno per evitare il confronto con il pensiero della morte, rendendo impossibile la Speranza.
Iniziamo dunque questo breve percorso insieme, che non pretende di esaurire la complessità di ogni argomento, ma ha solo l’intenzione di fornire suggestioni e punti di partenza per riflessioni personali sempre più profonde e durature.
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