Solo turismo e servizi o rilancio della produttività? Italia al bivio

La ritirata industriale, i dazi Usa e la fuga dalla globalizzazione. Serve una politica industriale ambiziosa: una nuova stagione per le nostre eccellenze
November 19, 2025
Solo turismo e servizi o rilancio della produttività? Italia al bivio
Se l’Italia rinuncia alla sua manifattura, rinuncia a sé stessa. L’economia immateriale potrà anche dominare i mercati, ma senza un’industria solida nessuna nazione può ambire ad essere sovrana
Da due anni e mezzo la produzione industriale italiana è in caduta. Un arretramento costante e ritmato, che comincia a far temere per la sorte stessa del nostro sistema manifatturiero. È dal settembre del 2023 che la produzione scende, mese dopo mese, fino ad agosto di quest’anno: un calo complessivo del 6,5 per cento. E i livelli pre-Covid restano ancora lontani. Le cause congiunturali sono note ma non per questo meno gravi. Da un lato la perdita del potere d’acquisto dei salari, che riduce la domanda interna e mette in crisi la fiducia delle imprese. Dall’altro, l’effetto combinato dei dazi statunitensi, della svalutazione del dollaro e delle difficoltà dell’export verso la Cina, che spezzano le catene di fornitura e penalizzano i nostri produttori.
Ma la crisi non nasce oggi. È l’esito di una lunga ritirata industriale cominciata trent’anni fa. Secondo i dati della Confimi, che rappresenta le manifatture italiane, ed è stata audita in Parlamento durante la recente manovra di bilancio, il numero delle imprese del settore è sceso sotto quota 500 mila, passando dal 13,8 all’8 per cento del totale. Un arretramento strutturale, che potrebbe pronosticare, se non si interverrà, la fine dell’Italia delle ciminiere. A questo si aggiunge la grande fuga della globalizzazione. Dall’inizio del secolo circa 21mila nostre realtà produttive – sempre dati Confimi - hanno delocalizzato, inseguendo costi più bassi all’estero come avvenne con il primo boom della Romania. I nuovi dazi stanno forse inducendo alcuni a tornare, ma non tutti.
Nel frattempo, un altro fenomeno si è imposto: la progressiva invasione dei capitali stranieri. Fondi francesi, americani, private equity di ogni provenienza acquistano marchi e partecipazioni: non è un fenomeno negativo in sé, ma certo va considerato nell’ambito di un discorso di politica industriale. Secondo un rapporto della società EY, nel 2024 si sono registrate 1.300 operazioni di ingresso o acquisizione, per un valore complessivo giunto a 60-65 miliardi di euro. Marchi storici come Parmalat, Pininfarina, Sperlari, La Perla, Galbani, Carapelli — e, di fatto, la stessa ex Fiat oggi Stellantis è sotto significativa influenza straniera — sono ormai sotto controllo estero. Non è questione di nazionalismo economico: è semplice consapevolezza di un mutamento profondo nella proprietà e nel controllo delle nostre eccellenze.
La situazione richiede una presa d’atto politica. Possiamo rassegnarci a diventare un Paese di turismo e servizi, oppure decidere di rilanciare la nostra capacità produttiva. Serve una politica industriale esplicita, ambiziosa, coerente. L’Italia ha eccellenze scientifiche e tecnologiche che potrebbero essere il nucleo di una nuova stagione. Alcune sono nate anni fa precedute da un serrato dibattito. Oggi le abbiamo: usiamole oppure lasciamo perdere. L’Istituto Italiano di Tecnologia, il Human Technopole e il Biotecnopolo di Siena: realtà che parlano il linguaggio del futuro — quantistica, robotica, semiconduttori, terre rare. Perché non coordinarle, potenziarle, farne il motore di una strategia nazionale? Perché non garantire loro le risorse necessarie, come ha chiesto l’IIT nel corso della recente audizione parlamentare sulla manovra? Senza contare la necessità di ripristinare gli incentivi fiscali per l’ingresso nelle aziende di nuove tecnologie che in passato hanno prodotto risultati positivi. Se l’Italia rinuncia alla sua manifattura, rinuncia a sé stessa. L’economia immateriale potrà anche dominare i mercati, ma senza un’industria solida nessuna nazione può ambire ad essere sovrana. Per non essere sovranisti a fasi alterne.

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