Quel piacere italico di tifare sempre contro. Ma così nessuno vince
L’interesse nazionale accantonato, dal calcio ai politici, fino ai rapporti social

Prima le trombette a ogni offensiva avversaria, poi l’esultanza per i gol, infine i caroselli delle auto e addirittura i fuochi d’artificio. Neanche fossimo sotto la Tour Eiffel. Mi ha colpito, sabato scorso, l’esultanza di buona parte degli abitanti del mio quartiere di hinterland milanese. E non per la vittoria del Paris Saint Germain ma per la sconfitta dell’Inter alla finale di Champions League. Da agnostico del calcio – e probabilmente per ingenuità personale – credevo fosse naturale, in una competizione internazionale, tifare per una squadra italiana, anche se diversa da quella del cuore. Avere comunque in simpatia il team dei connazionali. O almeno non godere della sua sconfitta, in questo caso della sua umiliazione. E invece no.
La fede calcistica evidentemente è assai più viva e fervente di quella religiosa e non sono previsti rapporti fraterni, “ecumenici”, niente sostegni reciproci e neppure condivisione del “lutto”. Anche se poi i calciatori di quelle stesse squadre, passati al setaccio delle nazionalità e rimescolati, giocheranno assieme in Nazionale. Saranno gli eroi – si spera – o la “vergogna” di tutti. Ma è solo in quel caso che ci si riscopre, d’un tratto e per il breve tempo d’un Mondiale o un Europeo, “italiani” e in qualche modo “fratelli”, fratelli d’Italia appunto. Per il resto no, mai.
Proprio alla vigilia del 2 Giugno, la finale di Champions mi è parsa una duplice piccola riprova di un grande fallimento. La prima, del fatto che l’essere italiani per noi è ancora in subordine rispetto a essere di quella regione, di quella città, quando non di una certa contrada, di quella squadra. Un’appartenenza localistica che non sa superare se stessa se non in pochissime circostanze. E che non si comprende come possa conciliarsi con un’idea identitaria, nazionalista e sovranista che pure si va accreditando come prevalente, tanto da voler escludere il più possibile chi – per nascita – “italiano” non è. La seconda questione riguarda invece il “fine” dell’essere una nazione e gli strumenti per raggiungerlo. L’idea cioè di ritrovarsi uniti su una base di valori comuni (nel nostro caso elencati nella Costituzione) e provare a renderli concreti nella vita delle persone. Anzitutto, attraverso la solidarietà e il tendere a un “bene comune”, non solo al “mio”, al “tuo” bene, ma insieme a quello di tutti e di ciascuno.
Sento già le obiezioni: «La fai troppo lunga, perché il calcio e il tifo, sono una cosa a parte. E lo sberleffo, il godere delle sconfitte altrui, ci sta». Tutto vero, non fosse che la modalità di quello stesso tifo, con la sua polarizzazione, rivalità, la logica del competitor non come compagno di gioco ma nemico, capace di arrivare fino all’odio e allo scontro fisico, caratterizza ormai buona parte dei nostri rapporti sociali. Con i politici a insultarsi e farsi sgambetti anche quando c’è da difendere un interesse nazionale in sede europea, i media che non sempre misurano le parole e i social su cui si scrivono invettive ignobili come quelle rivolte ai figli della premier e di alcuni ministri. Fino alle piazze, in cui si fatica ormai a esprimere democraticamente il dissenso, senza che ci sia qualcuno ad accendere scontri con le forze dell’ordine.
Sembriamo assomigliare sempre più al protagonista di quella storiella in cui un contadino, arando, trova una lampada d’argento nel suo campo. La sfrega per pulirla e – puff – ne esce un Genio che gli assicura la realizzazione di qualsiasi desiderio: «Sappi, però, che di quel che tu chiederai, ne darò il doppio al tuo vicino». Il contadino passa una notte d’inferno arrovellandosi su quale desiderio esprimere, perché se chiede cento milioni di euro, il vicino ne avrà duecento; se domanda una villa immensa, l’altro ne avrà una grande il doppio e così via col fegato sempre più ingrossato… Alla fine, la mattina dopo, il contadino torna dal Genio e gli consegna il suo desiderio: «Vorrei che mi cavassi un occhio!».
Piuttosto che sapere l’altro felice assieme a te o anche più di te, meglio diventare orbo io e cieco lui, meglio augurare un male condiviso piuttosto che tu stia meglio di me. È questa visione di un bene per l’altro – della squadra avversaria in patria o della forza politica in cui legittimamente non ci riconosciamo – che ci sta sfuggendo. Ma così nessuno vince, perdiamo tutti.
© riproduzione riservata
© RIPRODUZIONE RISERVATA






