Perché siamo orfani di Claudia Cardinale e Robert Redford
Con l'addio delle due star rischia di svanire anche qualcosa di più grande: l’idea stessa di un cinema che sapeva sognare, raccontare, osare, e soprattutto resistere al tempo.
Ci sono notizie che ci sorprendono anche quando non dovrebbero. Quando due figure come Claudia Cardinale e Robert Redford ci lasciano, all’improvviso l’una dopo l’altro, il sentimento che proviamo è quello di sentirci in qualche modo orfani. Perché ci sembravano eterni, fuori dal tempo, scolpiti nella pellicola come monumenti viventi. E invece no. Anche loro, come noi, erano e sono fragili, umani, destinati a svanire. Ma con loro rischia di svanire anche qualcosa di più grande: l’idea stessa di un cinema che sapeva sognare, raccontare, osare, e soprattutto resistere al tempo.
I “sopravvissuti” di quell’epoca d’oro, la classe di ferro degli anni Trenta, si contano sulle dita di una mano, dall’amatissima Sophia Loren che ha appena compiuto 91 anni, a Jane Fonda, 87 anni, a Kim Novak, 92 anni, a cui l’ultima Mostra del Cinema di Venezia si è affrettata a consegnare il Leone d’Oro alla carriera.
Claudia Cardinale è stata, forse più di ogni altra attrice, il volto di un’Italia moderna e insieme mitica. Il suo sguardo portava con sé il Mediterraneo, la libertà, la bellezza non patinata ma vissuta. Era desiderabile e irraggiungibile, forte e fragile, sensuale e distante. Era il cuore pulsante di una stagione irripetibile del cinema europeo e mondiale, quella degli anni '50, ’60 e ’70, dove registi come Visconti, Leone, Fellini o Zurlini le affidavano ruoli non solo da “diva”, ma da personaggio pieno, vivo, consapevole.
Accanto a lei, in questo ideale commiato, pochi giorni fa se ne è andato anche Robert Redford – volto pulito, idealista, romantico e al tempo stesso disilluso del cinema americano post-classico. La stangata, Come eravamo, I tre giorni del Condor, Gente comune: film diversissimi tra loro, eppure accomunati dalla capacità di tenere insieme il glamour con l’impegno, la forma con la sostanza. Redford ha incarnato un’America che rifletteva su se stessa, che si interrogava sul potere, sulla verità, sull’ambiguità dei sentimenti. E ha saputo farlo sia davanti che dietro la macchina da presa.
Oggi, mentre il cinema contemporaneo sembra dominato da franchise, algoritmi e superereoi più che da visioni, ci si chiede: riusciremo a tramandare questi giganti? Le nuove generazioni conosceranno mai C’era una volta il West, Il Gattopardo, A piedi nudi nel parco, La mia Africa? Sapranno riconoscere in quei volti non solo la bellezza, ma anche la profondità di un tempo che ha formato registi, attori e spettatori?
Per decenni, quel cinema è stato scuola: un patrimonio vivo, trasmesso con passione da professori, cinefili, critici, rassegne, notti insonni davanti alla tv. Ma oggi, con le piattaforme che privilegiano l’ultima uscita rispetto al classico, e con un pubblico sempre più giovane e veloce, il rischio è che questa eredità venga sepolta dal rumore del presente.
Non si tratta solo di nostalgia. Si tratta di capire che la memoria è un atto culturale e politico. Il cinema non è fatto solo di immagini, ma di idee, linguaggi, sensibilità. E figure come Cardinale e Redford non sono solo icone, ma vettori di tutto questo. Sono i volti e i corpi dell’immaginario che ci ha cresciuto, educato, mostrato cosa poteva essere l’arte prima di diventare prodotto. Un’arte capace comunque di riempire le sale cinematografiche, attualmente così in crisi, in un’esperienza comune e comunitaria.
E allora sì, oggi ci sentiamo orfani. Perché se ne vanno loro, ma con loro rischia di svanire anche l’eco di un tempo in cui il cinema aveva ancora la forza di cambiare il mondo – o almeno di cambiarci un po’.
E allora sì, oggi ci sentiamo orfani. Perché se ne vanno loro, ma con loro rischia di svanire anche l’eco di un tempo in cui il cinema aveva ancora la forza di cambiare il mondo – o almeno di cambiarci un po’.
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