Perché la crescita dell'occupazione non scalda i salari
di Redazione
Le leve su cui agire per far crescere gli stipendi sono diverse. La contrattazione va sostenuta, ma occorre intervenire con strumenti nuovi laddove non riesce più a tutelare i lavoratori

Questo è il terzo Primo Maggio consecutivo in cui il mercato del lavoro italiano festeggia numeri da record. Mai così tanti occupati: più di 24 milioni, con quasi 800mila nuovi posti solo nell’ultimo anno. Mai così alta anche la quota di contratti a tempo indeterminato. E in quattro anni il tasso di disoccupazione è sceso dal 10% a meno del 6%.
Eppure, il clima sociale non sembra riflettere questi record. Nei segnali che arrivano dalle piazze e dal dibattito pubblico prevale il senso di insoddisfazione. Lo sguardo torna spesso al passato, a una presunta epoca d’oro del lavoro (che non c’è mai stata!) più che al futuro. Il referendum in programma a inizio giugno, che chiederà di abrogare pezzi di una legge votata dieci anni fa e ampiamente rimaneggiata nel frattempo, ne è un indicatore.
Parte della distanza tra ciò che i numeri del mercato del lavoro raccontano e ciò che i lavoratori percepiscono riflette dinamiche politiche e dell’informazione che tendono a far prevalere le brutte notizie. Ma, in parte, lo iato riflette il fatto che il lavoro c’è, ma non basta. I record italiani, infatti, restano molto relativi rispetto agli altri Paesi. Il tasso di occupazione è ormai il più basso dell’Unione europea, anche la Grecia ci ha superato da tempo. Più di un giovane su quattro tra i 15 e 34 anni non studia, non lavora né fa formazione (è un NEET, come si dice con l’acronimo inglese). Inoltre, a fronte della crescita dell’occupazione, i salari reali – cioè al netto dell’inflazione – a fine 2024 risultavano ancora inferiori del 7% rispetto all’inizio del 2021 e senza grandi prospettive di recupero nel breve medio termine stando alla proiezioni contenute nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia. La povertà lavorativa resta sopra la media europea e coinvolge un occupato su dieci. L’industria è in difficoltà ma i salari dei lavoratori dei servizi scontano un ritardo pluridecennale.
Nel libro “La questione salariale” (Egea, 2025) abbiamo provato a ricostruire questo intreccio. Siamo partiti da un dato che ha colpito l’opinione pubblica e che ha contribuito a far emergere il dibattito sui salari: secondo l’Ocse, tra il 1991 e il 2023, il reddito medio da lavoro in Italia – corretto per l’inflazione – è diminuito del 3,4%. Una dinamica che non ha eguali tra i Paesi sviluppati. Nello stesso periodo, i salari reali sono aumentati del 30% in Germania e in Francia, del 9% in Spagna.
Ma non è solo una questione di numeri. È un sistema che si è progressivamente svuotato: il mercato del lavoro si è frammentato, le tutele si sono indebolite, la contrattazione di secondo livello resta marginale, e il fisco pesa sempre di più sui lavoratori dipendenti. Allo stesso tempo, le imprese hanno faticato a crescere e ad innovare, in un contesto segnato da micro-imprese, concentrate in settori a basso valore aggiunto e da una pubblica amministrazione non efficiente come dovrebbe.
Così, anche quando l’occupazione cresce – e sta davvero crescendo – i salari stagnano e il lavoro non garantisce l’ascensore sociale, né la sicurezza economica. Chi ha competenze spesso non riesce a valorizzarle, e chi non le ha fatica a svilupparle. Questo è il cuore della “questione salariale” italiana. Una questione che riguarda non solo chi guadagna poco, ma anche chi per le statistiche e per le tasse è classe media, ma non vive in nessun agio particolare.
Incredibilmente, però, la questione salariale fino a poco tempo fa non ha ricevuto nessuna particolare attenzione. Anche da parte dei sindacati: sono stati convocati scioperi generali per le più svariate ragioni, ma mai frontalmente per la questione salariale. Piuttosto, sono altri gli attori che hanno cominciato a muoversi: la magistratura che è arrivata a dire che un contratto collettivo, anche firmato da Cgil-Cisl-Uil, non è di per sé garanzia di un salario sufficiente. Oppure gli enti locali con i dibattiti in corso a Firenze, Milano e altrove. O la società civile, per esempio con il grande lavoro fatto dall’Alleanza contro la povertà o le riflessioni in corso nelle Acli su una “terza via” per il salario minimo.
Il Primo Maggio non può limitarsi ad essere una commemorazione del lavoro che fu, ma diventare l’occasione per pensare e chiedere politiche che siano all’altezza delle transizioni tecnologiche, climatiche e demografiche che stiamo vivendo. Servono investimenti in formazione e innovazione. Serve un riordino del sistema fiscale e di trasferimenti. Serve rivedere tutte quelle norme che nate con buone intenzioni finiscono per bloccare la crescita delle imprese. Serve usare al meglio i tanti dati che la PA ha già a disposizione per combattere il lavoro irregolare e l’evasione fiscale. Serve sostenere la contrattazione ma avendo il coraggio di pensare a strumenti nuovi là dove non pare più funzionare. Serve far diventare la soluzione della questione salariale un interesse comune, degli attori sociali, della politica e anche della società civile nelle sue tante e ricche espressioni. Affrontare la questione salariale, allora, per cambiare il lavoro, tutti insieme.
Eppure, il clima sociale non sembra riflettere questi record. Nei segnali che arrivano dalle piazze e dal dibattito pubblico prevale il senso di insoddisfazione. Lo sguardo torna spesso al passato, a una presunta epoca d’oro del lavoro (che non c’è mai stata!) più che al futuro. Il referendum in programma a inizio giugno, che chiederà di abrogare pezzi di una legge votata dieci anni fa e ampiamente rimaneggiata nel frattempo, ne è un indicatore.
Parte della distanza tra ciò che i numeri del mercato del lavoro raccontano e ciò che i lavoratori percepiscono riflette dinamiche politiche e dell’informazione che tendono a far prevalere le brutte notizie. Ma, in parte, lo iato riflette il fatto che il lavoro c’è, ma non basta. I record italiani, infatti, restano molto relativi rispetto agli altri Paesi. Il tasso di occupazione è ormai il più basso dell’Unione europea, anche la Grecia ci ha superato da tempo. Più di un giovane su quattro tra i 15 e 34 anni non studia, non lavora né fa formazione (è un NEET, come si dice con l’acronimo inglese). Inoltre, a fronte della crescita dell’occupazione, i salari reali – cioè al netto dell’inflazione – a fine 2024 risultavano ancora inferiori del 7% rispetto all’inizio del 2021 e senza grandi prospettive di recupero nel breve medio termine stando alla proiezioni contenute nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia. La povertà lavorativa resta sopra la media europea e coinvolge un occupato su dieci. L’industria è in difficoltà ma i salari dei lavoratori dei servizi scontano un ritardo pluridecennale.
Nel libro “La questione salariale” (Egea, 2025) abbiamo provato a ricostruire questo intreccio. Siamo partiti da un dato che ha colpito l’opinione pubblica e che ha contribuito a far emergere il dibattito sui salari: secondo l’Ocse, tra il 1991 e il 2023, il reddito medio da lavoro in Italia – corretto per l’inflazione – è diminuito del 3,4%. Una dinamica che non ha eguali tra i Paesi sviluppati. Nello stesso periodo, i salari reali sono aumentati del 30% in Germania e in Francia, del 9% in Spagna.
Ma non è solo una questione di numeri. È un sistema che si è progressivamente svuotato: il mercato del lavoro si è frammentato, le tutele si sono indebolite, la contrattazione di secondo livello resta marginale, e il fisco pesa sempre di più sui lavoratori dipendenti. Allo stesso tempo, le imprese hanno faticato a crescere e ad innovare, in un contesto segnato da micro-imprese, concentrate in settori a basso valore aggiunto e da una pubblica amministrazione non efficiente come dovrebbe.
Così, anche quando l’occupazione cresce – e sta davvero crescendo – i salari stagnano e il lavoro non garantisce l’ascensore sociale, né la sicurezza economica. Chi ha competenze spesso non riesce a valorizzarle, e chi non le ha fatica a svilupparle. Questo è il cuore della “questione salariale” italiana. Una questione che riguarda non solo chi guadagna poco, ma anche chi per le statistiche e per le tasse è classe media, ma non vive in nessun agio particolare.
Incredibilmente, però, la questione salariale fino a poco tempo fa non ha ricevuto nessuna particolare attenzione. Anche da parte dei sindacati: sono stati convocati scioperi generali per le più svariate ragioni, ma mai frontalmente per la questione salariale. Piuttosto, sono altri gli attori che hanno cominciato a muoversi: la magistratura che è arrivata a dire che un contratto collettivo, anche firmato da Cgil-Cisl-Uil, non è di per sé garanzia di un salario sufficiente. Oppure gli enti locali con i dibattiti in corso a Firenze, Milano e altrove. O la società civile, per esempio con il grande lavoro fatto dall’Alleanza contro la povertà o le riflessioni in corso nelle Acli su una “terza via” per il salario minimo.
Il Primo Maggio non può limitarsi ad essere una commemorazione del lavoro che fu, ma diventare l’occasione per pensare e chiedere politiche che siano all’altezza delle transizioni tecnologiche, climatiche e demografiche che stiamo vivendo. Servono investimenti in formazione e innovazione. Serve un riordino del sistema fiscale e di trasferimenti. Serve rivedere tutte quelle norme che nate con buone intenzioni finiscono per bloccare la crescita delle imprese. Serve usare al meglio i tanti dati che la PA ha già a disposizione per combattere il lavoro irregolare e l’evasione fiscale. Serve sostenere la contrattazione ma avendo il coraggio di pensare a strumenti nuovi là dove non pare più funzionare. Serve far diventare la soluzione della questione salariale un interesse comune, degli attori sociali, della politica e anche della società civile nelle sue tante e ricche espressioni. Affrontare la questione salariale, allora, per cambiare il lavoro, tutti insieme.
Andrea Garnero, economista dell'Ocse, e Roberto Mania giornalista sono autori del libro "La questione salariale" Egea editore
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