Parliamo di giustizia, ma facciamolo nel merito

di Mario Chiavario
Il referendum sulla riforma nasce già avvelenato: politica chiusa, toni ideologici, poco confronto. Invece è necessario pensare con libertà. Come Giulia Tortora, ad esempio
November 4, 2025
Parliamo di giustizia, ma facciamolo nel merito
Giorgia Meloni e il ministro della giustizia Carlo Nordio / FOTOGRAMMA
Nella varietà delle forme di comunicazione compaiono anche gesti aventi l’apparenza di semplici postille a qualcosa di ben altrimenti importante. Ma talora qualcuno di quei gesti viene invece ad essere, forse ancor più delle affermazioni cui accede, significativo e persino esemplare. Penso a una recente dichiarazione di Gaia Tortora, nota giornalista figlia di una delle vittime più illustri di un modo deplorevole di imbastire e condurre un’indagine penale. Lei ‒ ha sottolineato ‒ voterà convintamente “sì” al referendum sulla cosiddetta riforma costituzionale della giustizia, non risparmiando neppure critiche severe all’atteggiamento delle forze politiche che invece vi si oppongono. Tuttavia ‒ ha subito aggiunto ‒ non pensa di aderire, benché sollecitata, ad alcun comitato di sostegno a quel sì: «Preferisco essere libera di andare dove desidero, quando lo desidero. Di dire quello che credo o di non dire niente se il livello del dibattito resta quello di adesso: basso».
Altro stile, indubbiamente, dal trionfalismo con cui l’ultimo voto senatoriale sulla riforma Nordio è stato celebrato come uno scalpo offerto alla memoria di Silvio Berlusconi, le cui vicende nei rapporti con la giustizia, comunque le si rivolti, non sono assimilabili a quelle di Enzo Tortora. Del resto, è stato tutto l’iter parlamentare della riforma ad essere condotto, dalla maggioranza governativa che con vari gradi di devozione si riconduce a quella memoria, con modalità sconcertanti, a partire da un testo rispetto al quale si è rifiutato ogni contributo emendativo, fosse pur suggerito da appartenenti alla stessa coalizione che lo ha proposto. In un clima del genere a che vale che siano state rispettate alla lettera le regole procedurali scritte nell’art. 138 della Carta fondamentale? Sì, c’è stato il doppio passaggio di quel testo presso ambedue le Camere e ora, non essendosi raggiunti i 2/3 di favorevoli in ognuna di esse, si andrà al referendum popolare. Ma ci mancherebbe altro se addirittura tali regole venissero tranquillamente ignorate… Il fatto è che a ogni evidenza la ferrea blindatura del testo ha ridotto i vari passaggi dell’esame da parte di deputati e senatori a una serie di stucchevoli teatrini, in palese conflitto con un’esigenza che, mediante le suddette regole, i padri costituenti vollero fosse salvaguardata ogni qualvolta si venisse a toccare la legge basilare della Repubblica. È quella di un confronto particolarmente ed effettivamente approfondito e incisivo sui contenuti del testo, ricercandone autenticamente la più ampia condivisione possibile, qui sostituita viceversa da un categorico “prendere o lasciare”. L’aver fatto un corpo unico delle varie articolazioni della riforma rende altresì inevitabile che pure i cittadini chiamati a pronunciarsi nel referendum lo possano fare soltanto con un “sì” o un “no” globali (in questo caso, non essendoci un quorum da superare per la validità dell’esito, l’astensione non può essere usata come un’altra specie di voto negativo). Donde, un’ulteriore spinta a trasformare l’istituto referendario in un plebiscito pro o contro qualcuno (qui, a seconda delle rispettive simpatie e antipatie del singolo elettore, si potrà scegliere se impallinare governo, opposizione o magistratura …), a prescindere da valutazioni di merito sul quesito che si leggerà sulla scheda.
Largamente deludente, però, anche l’atteggiamento adottato dalle leadership dei principali partiti dell’opposizione, accomunati ma non senza ragguardevoli dissensi interni al Pd, in una gara a chi grida più forte un contrasto frontale alla riforma, andando anche oltre la magistratura associata, dal canto suo impegnata ‒ opportunamente? ‒ persino nella promozione di un “suo” Comitato per il no. C’è bisogno di ricordare che qui si trattava e si tratta di argomenti che da sempre suscitano controversie tra i giuristi e con buone ragioni di dubbi e incertezze in vario senso da parte di chiunque, cognita causa, li affronti senza pregiudizi ed equilibratamente. Le analisi problematicamente critiche dei singoli punti e del loro insieme sono invece state per lo più assorbite dalla ripetizione di slogan espressivi di certezze presentate come incontestabili e convergenti nel dare per scontato che la riforma comporti la riduzione o addirittura la soppressione dell’indipendenza della magistratura requirente se non anche, di riflesso, di quella giudicante. Personalmente non sono insensibile al pericolo, dal momento che specialmente lo sdoppiamento dell’attuale Csm in due organismi distinti può indurre o rafforzare la tentazione di fare come in parecchi tra gli Stati dove le carriere di giudici e accusatori sono separate, ossia di sottoporre i secondi a una più o meno larvata dipendenza dal potere politico. Ma dell’esistenza di questo pericolo non si può fare un dogma di fede, almeno fino a quando l’art. 104 della Costituzione ribadisce l’intoccabilità dell’indipendenza dell’una e dell’altra categoria di magistrati. Partita male e gestita peggio, la legge Nordio difficilmente vedrà spegnersi, nel tempo che ci separa dal referendum, le esasperazioni che ne hanno caratterizzato sin qui l’iter. E, vincano i “sì” o vincano i “no”, è poco probabile che si possa sperare nell’adozione, a livello di legislazione ordinaria, di integrazioni ragionevoli: tale, quella della riforma del tirocinio di formazione che ‒ come accade in Germania ‒ metta i giovani magistrati per un periodo adeguato a contatto operoso con tutte le realtà in cui prendono corpo le principali figure degli operatori di giustizia: giudici, pubblici ministeri e, perché no, avvocati. Peccato, giacché sarebbe questo, invece, il modo migliore per dare un senso compiuto a quella “cultura comune della giurisdizione” richiamata sovente come un valore, ma non sempre poi coerentemente praticata.

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