Nella disperazione, c’è speranza ed è un’immensa responsabilità
Una visione collettiva alla luce della multiforme crisi contemporanea: climatica, etica, culturale, antropologica

Nelle domeniche dell’Anno Santo "Avvenire" ospita voci credenti e laiche per offrire spunti di riflessione a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo. Qual è, oggi, la speranza che "non delude"? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la società, a che speranza collettiva attinge?
Che cosa possiamo sperare? Questa domanda, che Kant ha posto al centro della sua riflessione filosofica, viene da lontano. Gli antichi ritenevano che le speranze fossero vane, cieche, ingannevoli. Ci fu perfino chi, come l’imperatore Adriano, si sentì in colpa e si vergognò per aver sperato. E dirà (così almeno gli farà dire Marguerite Yourcenar nel romanzo a lui dedicato) che la sola cosa veramente saggia è volgere le spalle al mondo per prepararsi a "entrare nella morte a occhi aperti". Completamente diverso l’orizzonte in cui si muove il Salmista. La sua voce è intonata alla speranza fiduciosa di chi si è rimesso a Dio senza riserve e di chi fronteggia l’angoscia del non senso, del vuoto, del nulla appellandosi esclusivamente a Dio. In te Domine speravi: non confundar in aeternum (Salmi, 31). La speranza nel Signore non delude, non confundit, sarà il commento di San Paolo (Rom., 5, 5). Di più: è speranza al di là di qualsiasi speranza, è speranza contro la speranza, e speranza di chi in spem contra spem credidit (Rom., 4, 18). Secondo Kant, che ben conosce le opposte visioni della speranza - quella del mondo classico e quella cristiana - l’essere umano è fatto d’un "vecchio legno storto" impossibile da raddrizzare. Nondimeno una speranza c’è, non vana, non cieca, ma ragionevole e fondata. Quale speranza? La speranza che Dio esista. Che la nostra vita non finisca in niente. E che noi non si cada in confusione, né ora né mai. Si chiede dunque Kant: che cosa possiamo (ragionevolmente) sperare? Ragionevolmente. La ragionevole speranza: ecco ciò di cui si tratta. Kant si fa (e ci fa) questa domanda dopo essersi chiesto: cosa possiamo sapere? e prima di chiedersi: che cosa dobbiamo fare? Ma c’è anche una postilla: chi è l’uomo? L’uomo è quello che è. Vuole il bene, ma tende irresistibilmente al male, come se la sua radice fosse guasta. Eppure la legge morale è assoluta, incondizionata, ed è per sempre. Per sempre. Di fronte alla morte, la legge morale si erge come una promessa di eternità. Nulla può la morte contro la legge morale.
Non può sospenderla. Non può strapparla dal cuore dell’uomo - perché è una questione di cuore prima che di mente. Anche se la morte l’avesse vinta su tutto, non l’avrebbe sul cuore che batte in sintonia col bene. E neppure sulla mente che osa pensare l’assoluto, l’incondizionato. A legare terra e cielo, mondo fenomenico e mondo spirituale, mondo della necessità e mondo della libertà è la domanda: chi siamo? che cosa ci stiamo a fare qui? che cosa dobbiamo aspettarci dalla nostra vita? La risposta a questa domanda - sì, la vita ha senso, no, non siamo soli al mondo, tantomeno gettati in esso per caso o per sbaglio… - è qualcosa che non può essere dimostrato, ma è. È una pura fede razionale. È un "postulato della ragione" (è la libertà, è l’immortalità, è Dio). È una speranza basata su una esigenza inderogabile della ragione. "Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me…". Era per Kant una specie di pensiero fisso, ma anche un’immagine potente che lo riempiva di meraviglia e di commozione. Volle che quelle parole fossero scolpite sulla sua tomba, quasi che la morte ne custodisse o addirittura ne svelasse il segreto. Ma restiamo alla cronaca di questi nostri giorni nel segno di una disperazione senza fine. I nomi che diamo alle tappe di questo folle inseguimento del nulla sono sempre gli stessi di allora: guerra, peste, carestia, siccità. Perfino l’ultimo di questi nomi - cambiamento climatico, riscaldamento globale, desertificazione - suona antico. Pensavamo di parlare della guerra o di quella guerra al pianeta che per l’appunto comporta la sua desertificazione (altro che prendersi cura della casa comune a noi affidata, secondo il monito biblico!), invece parlavamo dell’Armageddon, la catastrofe apocalittica, il giudizio finale. Chi è ancora disposto a prendere sul serio l’Apocalisse? Nessuno, se si sta alla lettera dell’annuncio. Tutti, a condizione però di tradurne i contenuti in uno spettacolo cinematografico, dove la minaccia della fine del mondo viene immancabilmente sventata all’ultimo, gli spettatori liberati dall’incubo, tutti felici e contenti. A rassicurarci provvede la grande macchina dei sogni: ieri la televisione, oggi l’intelligenza artificiale, domani la realtà virtuale, o chissà. Che importa se non c’è più chi ci creda, ai sogni? Una mutazione antropologica è in atto. L’uomo sta apprendendo l’arte più difficile: sta imparando a sognare sapendo di sognare. Il che non significa sognare a occhi aperti. Sognare a occhi aperti comporta pur sempre la speranza che il sogno si avveri. Invece chi sogna sapendo di sognare non sa che cosa farsene della speranza. A lui basta sognare. È così piacevole il sogno! Perché porsi il problema se sia vero o falso? È come covare un uovo di drago. Non si sa che mostro possa uscirne. Nel finale di partita che si sta giocando nel mondo, l’assurdo e il comico si disputano la palma. Forse è la storia che si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa (Marx). O forse è la ricaduta della storia in una nuova barbarie più crudele dell’antica (Vico). Usciremo mai da questa spirale perversa? C’è ancora chi sia disposto a sperarlo? Fra l’assurdo e il comico, il tragico.
Così nel teatro greco. Ma così anche in quello moderno. E nella vita. Con una differenza, però. Mentre l’assurdo e il comico fanno leva sulla speranza, sia pure con riserva - l’assurdo rimanda a speranze che non hanno ragion d’essere, il comico si alimenta di speranze ridicole e - invece il tragico è imperniato su tutt’altra categoria: la disperazione. Lo ha ricordato Hans Jonas, filosofo kantiano. Solo la disperazione secondo Jonas ci potrà salvare, solo la consapevolezza di uno stato di cose ormai oltre il punto di non ritorno. Le sorti del pianeta sono segnate, avvertiva Jonas già cinquant’anni fa, ma soprattutto ad apparire segnate sono le sorti delle generazioni future (Il principio responsabilità, 1977). Come potrà la terra essere abitata dignitosamente, se la vita si sta imbarbarendo al punto da tornare a essere lotta per la sopravvivenza? Alle utopie che guardano al più che umano o sperano nell’oltreumano - il riferimento polemico è a Ernst Bloch, i cui tre volumi su Il principio speranza erano apparsi fra il 1954 e il 1959 - Jonas oppone il principio responsabilità, principio di un nuovo umanesimo possibile. E se Bloch paragona la speranza a un "trascendere senza trascendenza", Jonas muove dalla disperazione e radica l’essere al mondo nella trascendenza. Ma che cos’è trascendenza? Niente come la spes contra spem dice che cos’è trascendenza. In senso schiettamente kantiano, trascendenza è responsabilità per tutto nei confronti di tutti. È responsabilità per tutto ciò che accade, anche se fuori della mia portata. Responsabilità per ogni singolo ospite di questa dimora terrestre, compresi coloro che non sono ancora nati ma che verranno dopo di noi. Responsabilità per la sorte che è comune a tutti e sovrasta tutti, ma è nelle mani di ciascuno. Potremo continuare a sperare solo se sapremo porci all’altezza di questa responsabilità immensa. La terra che ci fu data perché l’abitassimo, ma prima ancora perché ce ne prendessimo cura per poterla degnamente abitare, si è fatta inospitale come non mai. Terra desolata. Devastata. Eppure questo problema non è più in agenda. Cancellato. Come fatto sparire. Gli antichi si vergognavano di sperare. Noi ci vergogniamo di disperare. Invece dal cuore della disperazione può rinascere la speranza. Sia nel senso della speranza contro la speranza, la speranza al di là della speranza. Sia nel senso che la vita non è una passione inutile. O, se lo è, lo è in quanto passione che rinvia ad altro, forse addirittura ad Altro. Non siamo noi a dare speranza ai disperati della terra. Sono i disperati della terra a testimoniare per noi la necessità della speranza. La terra non è dell’uomo. La terra è di Dio. Semmai la terra è per l’uomo: data da Dio all’uomo affinché se ne prenda cura e l’abiti in modo degno dell’uomo. Quale dignità in un modo in cui la vita è ridotta a lotta per la sopravvivenza? La terra desolata, la terra violata, la terra usurpata non è la terra di Dio. Non è neppure la terra dell’uomo. È la terra di un usurpatore. Concedetemi di concludere con un ricordo emerso dagli anfratti della memoria. Al poeta Dario Bellezza, gravemente malato, in fin di vita, fu chiesto quali speranze nutrisse ancora. Egli non nascose il suo ateismo. Ma poi aggiunse: La sola speranza è Dio. Quali altre? Nelle parole del poeta a me pare di cogliere un’eco della voce del Salmista. In te Domine speravi: non confundar in aeternum.
Sergio Givone, filosofo, ha pubblicato recentemente per Solferino "La ragionevole speranza. Che cosa i filosofi hanno pensato dell’aldilà"
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