Musk e Bezos sono due facce della stessa deriva del capitalismo
Il fondatore di Tesla chiede uno stipendio da mille miliardi, Amazon annuncia 30.000 licenziamenti. Se il successo diventa proprietà privata, il merito è privilegio.

Due notizie, arrivate quasi in contemporanea, raccontano meglio di molte analisi lo stato morale ed economico del capitalismo contemporaneo. Da un lato, Elon Musk che chiede al consiglio di amministrazione di Tesla uno “stipendio” da mille miliardi di dollari per restare alla guida dell’azienda. Dall’altro, Jeff Bezos che annuncia il licenziamento di 30.000 lavoratori in Amazon, in nome dell’efficienza e della competitività. Sono due gesti diversi ma speculari. Entrambi, infatti, disegnano il confine sempre più fragile tra merito e privilegio, tra valore e potere, tra innovazione e pura, sfacciata arroganza. Musk rivendica la propria centralità come se l’impresa fosse una sua estensione naturale, un prolungamento del suo genio e della sua volontà. Bezos taglia corpi vivi dalla macchina aziendale per renderla più leggera, più produttiva, più redditizia. Ma la logica che li muove è la stessa: la convinzione che il successo economico sia la misura del valore umano, che in nome della ricchezza prodotta si possa giustificare qualsiasi scelta. Sono due facce della stessa deriva. Da un lato, l’ipercelebrazione dell’imprenditore come salvatore, come figura quasi messianica; dall’altro, l’umiliazione di chi lavora ai piani bassi considerato niente più di un componente meccanico sostituibile. In questo squilibrio si consuma l’erosione di un principio fondativo: quello secondo cui il lavoro non è una merce come un’altra, ma luogo di riconoscimento, dignità e senso.
Quando un imprenditore o un manager può impunemente pretendere mille miliardi per sé mentre decine di migliaia di lavoratori perdono il posto, non è solo l’economia che si deforma, ma l’idea stessa di giustizia. Il denaro, in questi casi, non misura il contributo, ma sancisce la distanza: diventa il linguaggio del potere. Uno stipendio da mille miliardi non è solo economicamente insensato, è moralmente disgregante. Nessun individuo, per quanto visionario, può valere quanto milioni di lavoratori. È l’immagine di un sé autosufficiente, convinto di bastare a sé stesso, che dimentica le reti di cooperazione, le istituzioni, le infrastrutture e le persone senza le quali nessuna impresa sarebbe possibile. All’altro estremo, i licenziamenti di massa di Amazon mostrano la stessa logica, ma in negativo: il capitale viene preservato, il lavoro sacrificato. Si esalta la produttività, ma si smarrisce la dignità. In un’economia dove la ricchezza di pochi cresce senza limiti mentre la sicurezza dei molti si dissolve, il principio di equità perde senso e la fiducia reciproca si sgretola. La vera misura del valore non dovrebbe risiedere nel successo, ma nel contributo che ciascuno offre alla vita in comune. Il lavoro è degno non perché produce profitto, ma perché costruisce legami, riconoscimento, appartenenza. Quando invece il successo diventa proprietà privata e non bene condiviso, la società si disgrega e il merito diventa privilegio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






