L'Italia tra coscienza giurico-civile e responsabilità internazionale

Il divieto di tortura è inderogabile: non esistono circostanze eccezionali che possano attenuarne l'applicazione. Adempiere ai mandati della Cpi non è un atto di cortesia diplomatica, ma un obbligo pieno
November 7, 2025
L'Italia tra coscienza giurico-civile e responsabilità internazionale
Osama Njeem Almasri
Si torna a parlare del caso Almasri dopo che le autorità libiche hanno emesso un mandato di arresto nei suoi confronti con le accuse di tortura e altri gravi crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una premessa qui è necessaria: non ci interessa alimentare polemiche nel dibattito politico, ma unicamente porre una riflessione giuridica, etica e civile. L’attenzione è dunque sui principi che hanno portato allo Statuto della Corte penale internazionale e, più in generale, sul sistema di tutela dei diritti umani a livello internazionale, cui finora l’Italia, con la sua cultura giuridica e civile, ha dato fondamentali contributi e si è sempre riconosciuta. Il tema non è astratto: la società civile e l’opinione pubblica hanno un ruolo essenziale nel sollecitare dibattito e consapevolezza sulle decisioni dello Stato, poiché la tutela dei diritti internazionali e il rispetto degli obblighi derivanti da norme di ius cogens non è responsabilità solo degli apparati governativi o giudiziari, ma patrimonio legittimo della comunità.
C’è dunque da considerare una norma dirimente, finora trascurata nel dibattito: si tratta dell’articolo 2, paragrafo 2, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti del 1984. La norma stabilisce con chiarezza assoluta: «Nessuna circostanza eccezionale, che sia lo stato di guerra o la minaccia di guerra, l’instabilità politica interna o qualsiasi altra emergenza pubblica, può essere invocata come giustificazione della tortura». La disposizione evidenzia due aspetti fondamentali. Primo, il divieto di tortura è assoluto e inderogabile; non esistono circostanze eccezionali, comprese emergenze pubbliche o esigenze di sicurezza nazionale, che possano attenuarne l’applicazione. Secondo, il principio si estende oltre la condotta materiale: obbliga gli Stati a prevenire e a non favorire, direttamente o indirettamente, l’impunità dei responsabili. Da questa norma discende un principio di legalità assoluta, che colloca gli obblighi internazionali al di sopra di qualsiasi logica di convenienza politica o “ragione di Stato”.
Questo percorso porta ad argomentare su un altro profilo ora costantemente evocato: la decisione di non adempiere al mandato sarebbe stata giustificata da motivi di sicurezza nazionale e stabilità dei rapporti con la Libia, riferiti al rischio di sequestri di cittadini italiani e di ondate migratorie. Qui ancora il diritto internazionale indica la strada: il richiamo alla “ragione di Stato” si qualificherebbe in termini giuridici come “stato di necessità”, un’esimente generale effettivamente prevista negli ordinamenti giuridici ma strettamente vincolata ai principi di attualità, necessità e proporzionalità, oltre che di rigorosa legalità. Sul punto, vale l’articolo 25 della Convenzione di Vienna sulla responsabilità degli Stati: una eventuale eccezione dello “stato di necessità” è ammessa solo se l’azione contestata costituisce l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale da un pericolo grave e imminente, e non può comunque essere invocata quando l’obbligo violato deriva da una norma di ius cogens. Il divieto di tortura, dunque, esclude qualsiasi ricorso legittimo a tale scriminante.
L’Italia, erede di una tradizione fondata sul coraggio civile di uomini come Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, può giustificare il ricatto di non perseguire un torturatore? Queste riflessioni portano a considerare il motivo per cui fu scelto il modello dalla “cooperazione rafforzata” con la Corte penale internazionale: adempiere ai mandati della Corte non è un atto di cortesia diplomatica, ma un obbligo giuridico pieno, analogo – nella sua struttura e nella sua immediata esecutività – al modello del mandato d’arresto europeo. Riconosciuta a monte la valenza giuridica dello Statuto di Roma, gli Stati hanno scelto di non applicare il modello estradizionale – che comporta una valutazione “politica” discrezionale dei governi – ma di attuare la misura denominata surrender, la “consegna diretta”, un adempimento automatico dove ogni problema di attuazione va risolto esclusivamente con l’interlocuzione sollecita con la Corte, cui è comunque subordinata ogni decisione. Oggi si vuole rimettere in discussione il principio di “complementarietà”, che effettivamente prevede l’intervento della Corte solo se non c’è un contestuale procedimento davanti allo Stato nazionale. Ma qui valgono inequivocabili eccezioni. Quando è stato emesso il mandato della Corte dell’Aja non c’era alcun riscontro o richiesta formale di imputazione da parte della autorità libiche. Inoltre, il fatto che sia stato emesso ora non assicura che la Libia – ancora interessata da lotte fratricide interne e a un difficile processo di transizione – sia nelle condizioni di condurre un processo “equo e giusto” non condizionato da pressioni esterne.
In conclusione, nella vicenda andrebbe messo da parte l’agone politico. Piuttosto va promosso un dibattito serio e costruttivo nel mondo accademico e nella società civile. Discutere della coerenza con le norme internazionali, del ruolo dell’Italia nella tutela dei diritti degli Stati e dei popoli, e della responsabilità etico-civile dello Stato significa interrogarsi profondamente sulle scelte che il Paese deve compiere in una realtà purtroppo sempre di più segnata da guerre, logiche di potenza, e sfide alla democrazia.
Membro dell’International Law Association

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