Le Italie insospettabili rivelate da cinema e fotografia
di Oscar Iarussi
Due sguardi sul Paese invisibile: la notte umida del Gargano di Rubini e le borgate romane di Pinna raccontano storie di dignità e riscatto

Quante Italie “insospettabili” misconosciamo? Per dirne una, il Sud vacanziero tutto sole e mare è smentito dalla notte umida e nebbiosa del Gargano di “La Stazione” di Sergio Rubini. Il primo ciak è battuto a metà novembre 1989 nello scalo di San Marco in Lamis, ai piedi della montagna sacra di Padre Pio, non ancora beatificato né “scoperto” dalla fiction e dal cinema. Il protagonista Domenico Arcieri (lo stesso Rubini), in divisa blu da capostazione, deve difendersi tanto dalla pioggia quanto dal prepotente di turno, il pirata d’una finanza bassa come gli istinti interpretato dal compianto Ennio Fantastichini, che cercherà a ogni costo di riprendersi la “sua” ragazza, Margherita Buy. Lei è fuggita da un’equivoca festa in una villa nei dintorni e ha trovato rifugio e comprensione nel piccolo mondo del solitario Arcieri. Il prossimo treno parte all’alba, ma prima che spunti il sole si consumeranno un’inaudita violenza e un autentico riscatto: l’inerme ferroviere, per passione e per orgoglio, difende la giovane donna dall’aggressione del fidanzato, resiste al di lui assedio e infine vince.
Trentacinque anni dopo la prima uscita nel 1990, il film è stato presentato nella versione restaurata da Cinecittà alla Festa del Cinema di Roma. “La Stazione” segnò il debutto nella regia del pugliese Rubini, allora trentenne, che era già stato l’alter ego di Federico Fellini in “Intervista” e uno degli interpreti di “Il grande Blek” di Giuseppe Piccioni. Il successo dà il la a una nuova stagione tricolore sugli schermi e segnala «una sommessa celebrazione dell’Italia umile nel contesto del cinema agnostico di oggi», come ebbe a scrivere il critico Tullio Kezich. Prodotto dalla neonata Fandango di un giovane e coraggioso produttore, Domenico Procacci, “La Stazione” è tratto dall’omonima commedia teatrale di Umberto Marino, in un’unità di spazio che il regista conosceva bene in virtù del padre Alberto Rubini, capostazione e artista a sua volta. Unità anche di tempo: tutto in una notte, un redde rationem/stazionem per l’uomo che guarda passare i treni, alla maniera di certi personaggi letterari di Georges Simenon e Danilo Kiš. Ma la pellicola solo in apparenza condanna il Mezzogiorno a un orizzonte arretrato e provinciale, in realtà ne rivendica la lontananza da una malintesa e aggressiva modernità.
Nell’epilogo la ragazza parte mentre il protagonista rimane, riprende il suo rituale di gesti quotidiani con una dignità anche linguistica grazie al singolare “meridionalese” che mescola cadenze dialettali ed esilaranti anacoluti: «L’acqua minerale è diuretica, la morte sua sono i reni». È un’antropologia culturale parimenti cara a Franco Pinna, il grande fotogiornalista che accompagnò Ernesto De Martino nelle spedizioni etnoantropologiche in Basilicata e nel Salento, nonché fotografo di scena dei capolavori felliniani. A Pinna, nato nel 1925 a La Maddalena e scomparso nel 1976, la Festa del Cinema di Roma dedica tre mostre realizzate in occasione del centenario dall’Archivio Franco Pinna e da OfficinaVisioni, a cura di Paolo Pisanelli. In particolare, alla Casa del Cinema fino al 30 novembre, sono esposti gli scatti di un reportage di Pinna dell’inverno 1956 – l’anno della grande nevicata che provocò decine di morti assiderati – nella borgata romana del Mandrione, dove le baracche erano addossate agli archi dell’Acquedotto Felice. Ecco i Rom, le prostitute, gli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1943, i sorrisi dei bambini poverissimi, le danze delle donne, i tuguri in cui convivono le persone e gli animali… Una realtà atroce e mai folkloristica. «La felicità e l’orrore di Roma son parti di un magma, di un caos», scriverà Pier Paolo Pasolini in un’inchiesta per il settimanale “Vie Nuove” (1958), i cui testi fanno da contrappunto alla mostra delle immagini di Pinna. Un’altra Italia dimenticata.
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