La speranza? E' un progetto che fa dialogare le generazioni
Un futuro migliore non dipende dall’ottimismo, ma dalla capacità di mettere in relazione sguardi diversi: dare spazio ai giovani che arrivano e valore a chi ha già camminato

Il mondo cambia perché arrivano sguardi nuovi che lo osservano come nessuno aveva mai fatto prima. Dietro agli sguardi delle nuove generazioni ci sono desideri e speranze che cercano nuovi spazi e opportunità. Tutto ricomincia con ciò che nasce. Ma nulla riparte da zero, grazie a quello che trasmettono le generazioni precedenti. Tutto si trasforma nel rapporto e nel confronto continuo tra vecchie e nuove generazioni. Ma ciò che si trasforma non necessariamente migliora. Se il nuovo che portano in dono le nuove generazioni non viene messo in condizione di generare nuovo valore, il mondo invecchia senza rinnovarsi. Se ciò che di valore le generazioni precedenti trasmettono non viene riconosciuto, il mondo si rinnova ma girando a vuoto. Il ruolo del rinnovo generazionale si trova ben espresso in un racconto presente nelle "Città invisibili" di Italo Calvino. In un passo, in particolare, scrive: «La popolazione di Melania si rinnova: i dialoganti muoiono a uno a uno e intanto nascono quelli che prenderanno posto a loro volta nel dialogo, chi in una parte chi nell'altra. Quando qualcuno cambia di parte o abbandona la piazza per sempre o vi fa il suo primo ingresso, si producono cambiamenti a catena, finché tutte le parti non sono distribuite di nuovo». Il mondo in cui viviamo viene in questo brano rappresentato come un dialogo che cambia continuamente e rimanendo aperto a un futuro mai scontato. Ad un primo livello cambia perché nuove generazioni salgono sul palco. Ma cambia anche, e soprattutto, perché i nuovi attori non arrivano semplicemente per ripetere il copione dei precedenti. Le parti vengono non solo redistribuite ma anche reinterpretate. Per garantire che il rinnovo generazionale migliori il dialogo collettivo, devono essere soddisfatte due condizioni. Prima: i membri delle nuove generazioni devono fisicamente esserci, avere la possibilità di salire e raggiungere il centro del palco, sostituendo progressivamente chi li ha preceduti. Seconda: la rappresentazione collettiva non può migliorare se chi è già al centro del palco mantiene ostinatamente la propria posizione senza evolversi o interagire con le nuove voci. Serve disponibilità a mettersi in discussione e lasciare spazio alle nuove generazioni. Non pretendere che i giovani si conformino semplicemente alle proprie attese. Ma è necessario, allo stesso tempo, che i giovani prendano la responsabilità e il rischio di mettersi alla prova. Che si facciano trovare pronti e in grado di portare una novità che arricchisce il dialogo.
Fuor di metafora, i figli non vengono per essere uguali ai genitori e ai nonni, per replicare i loro pensieri e il loro modo di vivere. Devono poter aggiungere valore con la propria novità, accendendo il loro sguardo originale sul mondo e offrendo soluzioni inedite alle sfide del proprio tempo. È così che la speranza di un futuro migliore rimane accesa. Il rischio, quando i meccanismi di rinnovo non funzionano, è che i giovani siano solo una comparsa. Ma oggi si aggiunge anche il rischio di una loro scomparsa. In pochi decenni l’Italia è passata da nazione giovane a società longeva, ma lo ha fatto senza costruire una strategia per mantenere vitale il ricambio demografico e sociale. La fase più dinamica e propulsiva del secondo dopoguerra – sostenuta da generazioni numerose che entravano con esuberante dinamismo nei processi produttivi e culturali – si è trasformata in una condizione instabile che espone a fragilità sistemica. Il risultato è una rappresentazione che tende a perdere slancio: meno nascite, giovani talenti che emigrano, mobilità sociale stagnante, alto debito pubblico, partecipazione civica in calo, incapacità di trasformare l’immigrazione in un elemento di stabilità e sviluppo. Tutti segnali di una speranza che fatica a rimanere accesa. Tutte le economie mature avanzate stanno entrando nella fase finale di una transizione demografica che rischia di trasformarsi in crisi. La sfida è globale, ma il nostro Paese l’affronta da posizione più fragile: ha ridotto più di altri la consistenza delle nuove generazioni; ha investito meno su formazione, innovazione, ricerca; ha tardato a rinnovare il modello produttivo; ha accumulato più debito pubblico. Ciò che garantiva benessere nel Novecento – forza lavoro abbondante, crescita basata su produzione e consumo in aumento, equilibri demografici favorevoli – oggi non è più disponibile. Ma ciò che può garantire benessere nel XXI secolo – competenze elevate, innovazione, sostenibilità, equità tra generazioni – non è stato ancora solidamente costruito. Oggi molte aziende resistono sul mercato grazie al massiccio ricorso alla forza lavoro over 50, la fascia demograficamente più abbondante. Ma questa riserva ha durata breve: quando verrà meno, a crescere saranno solo le organizzazioni capaci di valorizzare il contributo delle nuove generazioni, integrando la loro visione del lavoro, della sostenibilità, del benessere. Cosa non facile e che non avviene automaticamente.
Per la prima volta la società e l’economia si confrontano con una generazione di giovani interamente nata nel XXI secolo. Non possiamo pretendere che pensino e agiscano in coerenza con il modo in cui hanno vissuto i loro genitori: sarebbe un errore strategico. Dobbiamo aiutarli a prepararsi al mondo che verrà, che sarà diverso nei modi di produrre, consumare, apprendere, partecipare. Sono cresciuti con un orizzonte instabile, più esposti all’incertezza climatica, economica e geopolitica. Ma portano con sé una sensibilità nuova, non solo nuove competenze richieste dal mondo del lavoro. Aspirano a un diverso modello di sviluppo dove la qualità è al centro: qualità delle relazioni, della vita, del contesto lavorativo, dei consumi, del rapporto con l’ambiente. Tutto questo ha assunto un ruolo cruciale nella loro visione dell’essere e agire nel mondo. Anche in un contesto demografico difficile, il futuro non è scritto. Una società più longeva non è necessariamente più debole. Può diventare una società ricca di esperienza, inclusiva, consapevole: capace di vivere più a lungo, meglio e in modo più equo. A condizione che la relazione tra generazioni resti solida, ben distribuita, orientata a creare valore. Ma a condizione anche che l’estensione della vita davanti a sé non dimentichi la vita oltre a sé. Il XXI secolo può, in definitiva, essere ricordato come il secolo del declino oppure quello del passaggio a un modello di sviluppo con al centro qualità e sostenibilità. Dipende da quanto saremo capaci di: interpretare la longevità come opportunità, non come peso; sostenere il protagonismo positivo delle nuove generazioni; trasformare la quantità che diminuisce in qualità che cresce; mantenere aperto il rinnovo e il confronto generazionale. La speranza non è una condizione emotiva, né deriva da ingenuo ottimismo. È la precondizione per una postura progettuale: la disposizione a investire generativamente oggi perché ciò che verrà dopo abbia fondamenta solide.
Il libro
Nell’Italia che invecchia, alle prese con la glaciazione demografica, il crollo della natalità e il rischio spopolamento, c’è un aspetto che può rendere la prospettiva ancora più problematica di quanto non lo sia già: il fatto che i pochi bebè che vengono alla luce oggi, meno di 370.000 nel 2024, una volta cresciuti decidano di andarsene a vivere altrove, dove il rapporto tra generazioni è meno sbilanciato e la qualità del vivere superiore. Sarebbe catastrofico. Non subire passivamente l’inerzia demografica negativa, ed evitare l’impatto degli squilibri, è comunque ancora possibile. Alessandro Rosina, docente di demografia all’Università Cattolica, lo spiega con efficacia nel suo nuovo libro «La scomparsa dei giovani - Le 10 mappe che spiegano il declino demografico dell’Italia» (Chiarelettere, pp. 114, euro 16). Un testo per prendere coscienza, perché la soluzione è sì nelle mani della politica, ma «passa anche attraverso comportamenti individuali e scelte collettive che responsabilizzano tutti noi».

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