La speranza ci chiede sovrumanità: c'è bisogno di amare a strascico
Serve saper fare l’impossibile, per non rassegnarci all’impassibile davanti al male: un’interpretazione “d’attore” del tema giubilare. «Impariamo a scendere nelle piazze interiori, per risollevarc

Spes spem spam... Messaggio di fiducia, segno di predisposizione a credere in una sorte migliore, o qualcosa che nella posta o nel posto del cuore va perduta o addirittura gettata? Anche i fiori “gettano”, ma è per rinascere non per buttar via... La speranza – dicono – è l’ultima a morire: ciò che mi interessa però è sapere chi è il primo a rinascere. I morti li vedo tutti i giorni in vitro nei “laboratori” televisivi e social (poco sociali), li leggo nell’ubriacatura di sangue, di solito non nostro ma altrui, ed è sangue inteso come capitale interamente versato, nelle banche dove spesso depositiamo i nostri risparmi di denaro in molti casi sporco. A differenza di altra etica che io credo non possa esistere senza poetica, e quando parlo di etica parlo anche di banche etiche che sanno da tempo come far fruttare il bene e i beni.
Ma noi le persone gli esseri tutti dobbiamo risparmiare o risparmiarsi? Il mio domator di domande si e mi chiede se l’investimento che abbiamo fatto nelle vite nostre e altrui è a perdere, o se moltiplica i nostri beni con “interessi” non intesi come moneta ma relazioni, collegamenti unioni fusioni. Non mi importa solo bene dire ma parlare di bene, e quindi chiedo: che bene è? Un bene comune sociale privato (di cosa?) finalizzato, immobiliare, biliare (ci vuole fegato?), filiale come una sede, filiare, intimo, materno eterno, o un bene commerciale inalienabile, alienabile abile, disabile, super abile, incommensurabile, o sacro? Da qui partirei per, speleologicamente antropologicamente e soprattutto artisticamente e poeticamente, far riemergere dalla sua volontaria o involontaria sepoltura il concetto altro e oltre di speranza, con la A maiuscola: A di amare, non di ammazzare, A di accogliere non di armare, A di aiutare non di annegare, A di associare, non di arrestare. La speranza che finiscano le guerre (sono circa sessanta, da tempo immemore, e sono se non dimenticate addirittura non degne di racconto); la speranza di salvare la Terra domandandosi, quando va bene, Terrá? La speranza di essere curati sempre e comunque, non solo guariti; quella di salvare tutti i derelitti dal loro “stremare” che spesso neghiamo, anzi appunto anneghiamo. La speranza di recuperare i rei senza vendicarsi torturare punire vessare odiare impoverire ri-uccidere. L’elenco sarebbe sterminato, ma questo termine che significava infinito, come cielo mare e terra, oggi vale come unità di misura di eccidi ed epurazioni di massa, genocidi probabilmente, geniocidi certamente: infatti la prima cosa che prepara un eventuale genocidio è ammazzare la parte più geniale creativa spirituale sacra che è appunto puro genio, grande libertà di essere alti, illuminati eletti e pieni di grazia.
Ecco che allora per entrare a far p’arte della speranza mi appello al bello, perché scavo e scovo proprio lì ciò che fa da trampolino di lancio per intraprendere la strada del mi affido, del mi fido, della compensazione tra disperazione e sperazione, tra ormai e invece, tra ahimè e hai me! Lo dico da altrista, parola che ho coniato per ribadire che non si può fare nulla se non con e per l’altro, e da uomo di tealtro (anche qui intendo “metti in scena” non solo te ma l’altro te, o anche l’altro puro: in fondo chi di noi è l’altro?). Tutte le volte che vado in una scuola in un ospedale in un carcere a un festival, oppure faccio una mostra o presento un libro, mi sento autorizzato non autore, scritturato non scrittore: ricevo – ed è già qui il privilegio – la speranza incarnatasi, qualcosa che non dipende da me ma preesiste, c’è, stava: a me la possibilità di captare con antenne animali e dell’anima, per poi indossarlo abitarlo quasi contemporaneamente (arte contemporanea) e al fine girarlo ad altri, espanderlo, emanarlo. Siamo emanità non più umanità.
Siamo troppo umani: la speranza chiede sovrumanità, altro che tornare umani... L’umano ha fatto già troppi danni a sé e in natura. Se non cambia dimensione strato condizio si ne qua non là, già è stinto, finito e senza alcuna sfumatura. La quantistica, che io riassumo nel quantico delle creature, nel quantico dei quantici, ci dimostra scientificamente antroposoficamente la possenza spirituale (non ho detto religiosa) di quanto divino scordiamo di noi, pezzi di divinità appunto, p’arti di un tutto inscindibile indicibile incredibile e quindi sacro. Difficile raccontarlo con la speranza di essere condivisi nondivisi, né derisi o frantesi... Ovvio, perché non sappiamo sperare di saper ovviare al nostro esser piccoli deboli e mortali (?) pur credendoci potenti conquistatori ricchi famosi e intoccabili nel mercato nella finanza nell’economia e nel potere. Potere inteso come dominio non come io posso o noi possiamo (opossum). Dominio e predominio ci posseggono ma mai ci faremmo possedere da energie, entità altre che temiamo e non sappiamo riconoscere, se non a disperazione avvenuta: in punto di morte, nei mali, attraverso una perdita lancinante familiare e che ci tocca direttamente (anche se ci tocca fare pur non essendo coinvolti direttamente). Nulla avviene più per rivelazione, tutto solo per disperazione, le più disparate.
Ecco dove la speranza e non la spersperanza (cioè il buttare al vento ogni mutazione per la grande meta, la metamorfosi) mi circonda feconda, e mi conferma ciò che avverto e percepisco da tanto tempo: un cambio di dimensione strato trascendenza, che non può più attendere. E cioè, ripeto fino al parossismo, la “sovrumanitá” che chiama e invoca di essere vissuta e agita, soprattutto se, come parrebbe, siamo tutti preoccupati disperati feriti arrabbiati delusi impotenti e frustrati. Fine di un’era inizio di un è: salto quantico universale cosmico, immedesimazione nell’altro, non più condivisone empatia solidarietà o “beneficenze” tout curt. Siamo lisi e prima ancora lesi, ora talmente incavi e svuotati, appunto, da farci chiudere alla vita Ma noi vediamo la punta dell’iceberg, la cronaca, i giovani omicidi suicidi femminicidi, i genocidi e geniocidi (che per primi ammazzano la nostra parte mentale e spirituale più feconda e sacra) ma non siamo in grado di essere speranza, essere luce vibrazione onda. Da stanco vivo quale sono, anzi, da reattore non nucleare, quale mi sento ora più che mai, credo sia fondamentale necessario naturale e perché no bello scendere nelle piazze soprattutto quelle interiori, anzi salire sollevarsi innalzarsi, per non concedere a chi è persona smessa e dannata di prendere il sopravvento e riuscire a spazzar via ogni speranza maiuscola o minuscola, ogni possibilità capacità dovere e volere. Non lascio a nessuno che le nuove generazioni siano generazioni a morire. Non permetterò ai re fusi di perpetrare errori e orrori di abituarci all’arimanico travestito da tutore della legge del taglione o del più forte (spesso l’uomo forte è un uomo forse). Concederò la mia mano a chi vuole sposare l’idea del non obbedire non combattere ma del credere che sia possibile.
Fino a ora abbiamo conniventemente fatto il possibile, ma ora è l’impossibile che s’ha da fare. Non lo dobbiamo temere: ciò che invece ci deve terrorizzare è l’impassibile, chiunque accetta di non muovere un dito una intenzione, pur di fronte al male assoluto, all’inguardabile all’indicibile, fino ad abitare consapevolmente il demoniaco seppur travestito da apparente decenza e normalità, come se anormalità consistesse non nel fare di più per i più che facciamo diventare croci tirando a (mala) sorte. Testa o croce? Testa per accarezzarla croce per portarla e se possibile “scorporarla”. La esse di sacrificio può essere la stessa esse di speranza ma anche di sollievo salvezza sanità santità sole solerzia, finanche sollucchero. Perché non può essere piacevole e pure divertente godevole e spassoso amare a strascico, stravedere per qualcosa o qualcuno, danzare per le vite e sulle vite? Lo ripeto: mai domatore domerà le domande, mai ammaestratore addomesticherà l’animal anima a obbedire ciecamente agli orbi di senso e meraviglia.
La suddetta speranza chiede non più solo di lavorare, fare il proprio mestiere, ma invoca (e io sono anche di professione un invocato) di farli tutti contemporaneamente. Ecco di nuovo l’arte contemporanea, fuori dal tempo oltre il tempo, per non perderne più o sprecarne: spreco che fa eco alla fine. Fine che non lascio mi e ci colga già morti, e per non continuare a esserlo. Credendo e non solo sperando nella reincarnazione delle vite anche precedenti e nel genio procedente, inarrestabile.
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