La riforma della Corte dei Conti e la "firmite"
Il Parlamento si appresta al varo definitivo di una ridisegno meno noto di quello sulla magistratura ordinaria, ma non meno rilevante. In ballo c'è il bene comune

Correva la fine del secolo scorso quando chi scrive, all’epoca cronista praticante di questo quotidiano, saltabeccava da una parte all’altra della Calabria per raccontarne i mali atavici e, insieme, l’anelito di riscatto. E non era solo la malapianta della ‘ndrangheta a vessare i calabresi, ma anche l’eccessivo spreco di fondi in opere pubbliche non concluse, con cantieri beffardamente lasciati a metà in attesa dell’ennesima “variante in corso d’opera”: dighe mai ultimate, ospedali finiti ma rimasti chiusi, tratti stradali perennemente da riasfaltare… A volte, prima della magistratura ordinaria, a mettere il dito nelle piaghe di quella Sprecopoli calabra era l’allora procuratore regionale della Corte dei Conti: Nicola Leone, un magistrato che non consumava i tacchi delle scarpe nei corridoi degli uffici. Seguire le sue tracce significava addentrarsi nella palude di incompiute che punteggiavano la Regione. Sulle Serre vibonesi, Leone scoprì addirittura un invaso non completato, ma già presente su qualche mappa cartografica. Nel sito dell’opera non ultimata, campeggiavano cartelli di lavori degli anni Ottanta e qualche ruspa arrugginita. Troppo poco per una spesa di 100 miliardi di vecchie lire, dieci volte la previsione iniziale. Ne scrissero Avvenire e il Corriere della Sera, titolando in prima pagina sull’epopea del «lago che non c’è», quasi fosse l’isola di Peter Pan. Pareva folclore, ma non lo era: era la desolante cartina tornasole di una terra in cui promettere e non mantenere, sciupando denaro dell’erario, veniva ritenuto meno grave rispetto ad altre condotte. Eppure quei fiumi di sperpero instillavano nei cittadini la demoralizzante convinzione che, a certe latitudini, allo Stato non interessasse la sorte di appalti nei quali pure profondeva milioni, anzi miliardi.
Lo raccontiamo perché in queste ore, passato Natale e prima di San Silvestro, il Parlamento si appresta al varo definitivo di una riforma meno nota di quella sulla magistratura ordinaria, ma non meno rilevante. Si tratta del disegno di legge Foti (approvato ad aprile dalla Camera), che il Governo ritiene necessario per riorganizzare anche a livello territoriale l’operato della Corte dei Conti e per superare la «paura della firma», che rende titubanti molti funzionari pubblici. Non la pensano così i destinatari della riforma, i magistrati contabili, che da mesi appuntano come spilli circostanziate e preoccupate obiezioni su «criticità» che, a loro dire, rischiano di portare a un indebolimento dei controlli e a un eccesso di istanze da esaminare, finendo per incidere in pejus sulla funzione costituzionale della giustizia contabile. Su tutto, spiccano il rischio di essere sommersi da valanghe di pareri preventivi (a cui dare risposta entro un mese, pena il silenzio-assenso) e ancor di più l’abbassamento del tetto massimo del risarcimento del danno erariale, limitato al 30% dell’ammontare accertato (o al doppio della retribuzione annua lorda del responsabile). Misura che, per l’Associazione dei magistrati della Corte, determinerebbe «l’eccessiva deresponsabilizzazione di chi maneggia il denaro pubblico»: su un danno di un milione di euro oggi risarcibile in toto, ad esempio, si scenderebbe a 300mila. E i restanti 700mila? «Li pagherebbero i cittadini, cioè tutti noi», lamentano i magistrati contabili. E se quel mancato risarcimento, aggiungono, si moltiplicasse per dieci o cento episodi si rischierebbe, alla lunga, il dissesto dei bilanci di enti locali e regionali e infine del Paese. Quel tetto insomma, pensato come antidoto alla firmite di governatori, sindaci e assessori, secondo i giudici contabili potrebbe minare la funzione deterrente della responsabilità amministrativa, allontanando il dettato legislativo dal faro dell’articolo 97 della Costituzione, che prescrive il «buon andamento dell’amministrazione» e mettendo a rischio «la tutela della finanza pubblica». Se così fosse, non sarebbe proprio il miglior viatico in questa stagione di investimenti infrastrutturali annunciati, sostenuti anche coi fondi (presi a prestito dall’Ue) del Pnrr.
Nelle opposizioni, c’è chi la giudica una riforma «vendicativa», stante il noto altolà della Corte al Ponte sullo Stretto. Non pensiamo che lo sia. Ma certo, proprio perché per il Ponte s’investiranno fior di miliardi pubblici, in euro stavolta, non andrebbe ignorato il timore che l’allentamento di alcuni laccioli possa lasciare la magistratura contabile con gli strumenti normativi spuntati e indurre di converso alcuni amministratori e decisori politici a operare con leggerezza. Stamani, come detto, il disegno di legge andrà in Aula al Senato per l’approvazione finale: è molto probabile che la ottenga e che il Governo s’intesti il risultato. In tal caso, ai magistrati contabili non resterebbe che sperare di poter interagire con l’esecutivo nella stesura dei decreti attuativi, per mitigare gli effetti delle norme ritenute perniciose. Peraltro non è escluso che il testo, in alcune sue parti, possa finire in futuro sul tavolo della Consulta, quando però i buoi, ossia i fondi pubblici, sarebbero già usciti dalle casse. Non sappiamo se in extremis il Senato tirerà il freno a mano, ma appare difficile. Ciò che comunque auspichiamo è una riflessione ulteriore e profonda di Governo e Parlamento. I giudici della Corte dei Conti non sono tetragoni a una riforma e hanno già proposto alcuni interventi «chirurgici». Perché non ascoltarne le voci? La posta in gioco è alta. E non si tratta solo della firmite, ma del bene comune.
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