La diplomazia non deve fermarsi. Alternative ne restano

Dopo le speranze alimentate dal vertice Trump-Putin e dal summit alla Casa Bianca con Zelensky, la guerra è continuata come prima. Facile ora cadere nello sconforto. Ma dobbiamo reagire
August 23, 2025
La diplomazia non deve fermarsi. Alternative ne restano
Ci abbiamo provato, è andata male. Di più non si poteva fare. Il maggiore pericolo di disaffezione a una causa è il fallimento dei tentativi (almeno in apparenza) robusti e sinceri di risolverla una volta per tutte. Dopo le speranze alimentate dal vertice di Anchorage tra Donald Trump e Vladimir Putin e dal summit alla Casa Bianca con Volodymyr Zelensky e i principali leader europei (Spagna esclusa), la guerra è continuata come e peggio di prima nel gelo delle ultime dichiarazioni del presidente russo e anche di quello americano. Facile ora cadere nello sconforto e lasciare che la tragedia ci scivoli addosso. Il mondo cattolico venerdì si è mobilitato per la pace con gli strumenti della preghiera e del digiuno. Un segno forte che tuttavia ha lasciato tanti indifferenti, disillusi da quella che è apparsa una recita diplomatica tra leader poco interessati a porre fine ai combattimenti, destinati perciò a proseguire fino alla vittoria per consunzione di una parte sull’altra.
Dobbiamo reagire a questa lettura e a questo atteggiamento per non cadere esattamente in quello che alla vigilia dell’incontro in Alaska molti paventavano: una Monaco del 2025, ovvero un accordo simile a quello del 1938, quando Germania, Regno Unito, Francia e Italia, senza la Cecoslovacchia al tavolo, imposero a quest’ultima di cedere la regione dei Sudeti rivendicata da Adolf Hitler. Un cedimento delle altre potenze alla Germania nazista, che si immaginava allora utile a evitare un conflitto, ma che non spense per nulla le mire espansionistiche di Berlino, sfociate l’anno successivo nella Seconda Guerra mondiale.
Sembrava scongiurare quello scenario l’asserita volontà americana di dare, insieme a Ue e Nato, garanzie di sicurezza all’Ucraina mutilata di circa il 20% dei suoi territori presi dalle truppe di Mosca (si tratterebbe infatti di un’espropriazione illegale, anche se un accordo provvisorio ammettesse solo di fatto la conquista senza un riconoscimento di diritto, per non sancire apertamente un precedente nella violazione del diritto internazionale).
Anche le condizioni fatte filtrare ufficiosamente dal Cremlino davano l’impressione che si potesse trovare una via per trattative finalmente solide e arrivare a un cessate il fuoco permanente. I giorni successivi ci hanno riportato all’intransigenza russa. Le pretese di territori nemmeno conquistati – comprese le zone fortificate del Donbass che costituiscono un solido ostacolo a un’eventuale nuova offensiva e che Mosca non riesce a conquistare –, neutralità di Kiev, meccanismi di difesa in cui pure l’invasore e il suo alleato cinese abbiano potere di veto e misure di imperialismo culturale (la propria lingua imposta come ufficiale) segnalano la volontà di ottenere una capitolazione del nemico e non un’intesa, pur sempre vantaggiosa viste le responsabilità nel conflitto.
Trump torna a tentennare, forse interessato soprattutto a instaurare buoni rapporti con l’altra superpotenza nucleare, la Cina pare disposta a contribuire un eventuale forza di peacekeeping, l’Europa prova a tenere duro: in ogni caso essere ottimisti diventa nuovamente arduo.
Appare evidente che bisogna tentare di battere altre strade. Per esempio, rimettere in gioco le Nazioni Unite attraverso l’Assemblea generale e non il Consiglio di sicurezza, bloccato dai “no” incrociati. Un cessate il fuoco richiesto a larga maggioranza dai 193 membri e garantito da una forza multinazionale di Paesi terzi potrebbe essere una via, non facile, eppure da provare. Il modello è quello della risoluzione “Uniting for Peace” adottata nel 1950 durante la guerra di Corea, che permise di aggirare i veti sovietici e autorizzò gli Stati membri a mettere in atto forme di assistenza militare collettiva.
Si potrebbe poi esplorare uno sblocco condizionato dei fondi di Mosca congelati all’estero o la rimozione parziale di sanzioni in risposta a passi concreti da parte del Cremlino, con meccanismi automatici in direzione inversa (confisca o nuove penalità) in caso di violazioni degli accordi. Magari il capo della Casa Bianca stupirà in positivo con un’altra mossa imprevedibile (ha parlato di due settimane per decidere e resta comunque l’attore chiave per rompere lo stallo), di certo non ci si può aspettare nulla da Putin. Come, purtroppo, nemmeno da Benjamin Netanyahu.
È davvero un paradosso essere testimoni di due crisi umanitarie così gravi (è dell’altro ieri la dichiarazione ufficiale di “carestia” a Gaza City) e di avere l’impressione di totale impotenza anche di fronte all’esecutivo di un Paese democratico (Israele), per di più nostro alleato. Sarebbe bello vedere i capi di Stato e di governo volati a Washington recarsi anche a Tel Aviv per chiedere una tregua umanitaria e permettere l’assistenza alla popolazione civile palestinese. Anche in questo caso sembra che sia sopraggiunta una rassegnazione di fronte al progetto di occupazione totale della Striscia. Parole di condanna si sono levate anche da Palazzo Chigi. Apprezzabili, certo, eppure oggi poco efficaci. Persino nazioni che hanno promesso di riconoscere a breve lo Stato di Palestina si stanno limitando ad annunci inutili a sfamare o proteggere i bambini che continuano a morire. Ci abbiamo provato, di più non si poteva fare di fronte all’ostinazione di chi vuole proseguire la sua guerra. In realtà, non possiamo arrenderci a questa sconfitta annunciata dei nostri valori e della nostra dignità, rimanendo inerti spettatori. Non cadiamo nella trappola delle strette di mano a favore di telecamera e della propaganda che nega gli orrori per anestetizzare le nostre coscienze. Lottare per la pace deve rimanere una priorità assoluta malgrado l’alternarsi demoralizzante di speranze e disincanto.

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