Il fine vita in anticamera e il testa-coda della Corte Costituzionale

Il merito della questione torna irrisolto al palo di partenza. Ma in coda compare una singolare formula su quel che deve accadere se una macchina suicidiaria si trova. E chiama in causa il Ssn
July 29, 2025
Il fine vita in anticamera e il testa-coda della Corte Costituzionale
Il dibattito giuridico sul fine vita, dopo cinque pronunce della Corte costituzionale, sembra entrato in una fase confusa tra il detto, in non detto e il contraddetto. L’ultima sentenza di qualche giorno fa, pubblicata col numero 132, doveva risolvere il dubbio del tribunale di Firenze se sia giusto che il divieto di omicidio del consenziente (art. 579 del Codice penale) impedisca di scegliere la morte per mano altrui con iniezione letale se il malato non è più in grado di fare da sé l’ultimo gesto, come invece nel suicidio aiutato. In fondo, che differenza fa? O se c’è differenza dove sta? E infine è giusto o no?
La Corte non ha risposto se sì o no, ma ha fermato il quesito in anticamera: ha detto che il giudice remittente non ha spiegato se si può trovare o no un macchinario di suicidio adatto a chi ha gli arti paralizzati, senza cercarlo come si deve, coinvolgendo l’Istituto superiore di sanità. Senza questo non si può decidere, la questione è inammissibile, punto e fine. Vuol dire che il discorso finisce lì, non si entra nel merito, non si accoglie e non si respinge, tutto resta com’era e com’è. Ma vuole anche dire che se si trova una macchina che ti fa morire a tuo comando anche da paralitico (ce n’è che funzionano usando i denti, gli occhi, la voce) non c’è bisogno di scomodare un altro a ucciderti. Punto, fine.
Punto fine? Il merito della questione, oggi scansato, torna irrisolto al palo di partenza. Ma in coda, a dar mostra che non s’è fatto un lavoro a vuoto, compare una singolare formula su quel che deve accadere se quella macchina suicidiaria si trova. Il Servizio sanitario nazionale dovrà acquistarla e metterla a disposizione del malato suicida.
Ma che testa-coda: proprio in un giudizio dedicato all’omicidio come via di morte praticabile quando il suicidio è fisicamente impraticabile, si fa il dettato sull’altro e opposto tema: su ciò che la sanità “deve” fare per procurare gli attrezzi della morte suicida. Niente di simile c’era scritto nella sentenza 242 che la Corte costituzionale pubblicò nel 2019 (nota come “Cappato-dj Fabo”). Anzi c’era scritto che «la declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati». Si aggiungeva per esplicito «senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». E poi si affidava al servizio sanitario nazionale il compito di «verifica» delle condizioni necessarie e di «verifica» delle modalità esecutive «per evitare abusi in danno delle persone vulnerabili». E i comitati etici erano garanzia.
E il da farsi, infine, era detto ma non dettato, «in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore». Niente che riguardasse l’erogazione di un “servizio suicidiario” da inserire nel prontuario terapeutico, cosa che neanche in Svizzera. Ora invece, proprio quando il Parlamento si accinge, dopo lunga inerzia, a mettere a punto la legge così ripetutamente sollecitata, la Consulta gli fa il dettato, e dice come deve funzionare il suicidio in chiave simil-terapeutica, senza accorgersi che così rinnega all’origine la grande legge della Sanità degli anni ’70, dedicata «al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali».
A ognuno il suo compito. Il Parlamento resta libero nella sua prerogativa sovrana, resta libero persino di fare e di non fare. Ma al punto in cui il bisogno di chiarezza è divenuto così perentorio è lecito pensare che una disciplina esplicita, concentrata sui problemi sorti dalla già avvenuta depenalizzazione settoriale del delitto di aiuto al suicidio, sia ora un compito che è meglio affrontare che ricusare. Consapevoli che vita e morte non sono cose che sondaggisti, attivisti, giureconsulti, politicanti, possono prendere in ostaggio nei recinti dei loro orizzonti d’interesse, perché riguardano il senso dell’essere di ciascuna persona vivente. Chi ha fede sa che ogni persona vivente è “gloria di Dio”, come disse Ireneo di Lione. Chi ha pur solo un naturale rispetto della vita di ciascuno chiederà alla legge l’impegno della solidarietà sociale. Dovrà mettersi in salvo l’aiuto, scongiurare lo scarto, preservare la libertà di coscienza. Ma anche rendere attiva nella società atomizzata che ammicca alla libera morte la presenza di un vangelo della Carità che accoglie, assiste, accompagna, condivide le ragioni di una speranza che trascende il limite della morte.

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