Il diritto d'asilo misura del livello della nostra civiltà
Il numero delle persone in fuga da conflitti e persecuzioni è raddoppiato nell’ultimo decennio. Riuscire a integrare i rifugiati può essere vantaggioso per tutti

Il diritto d’asilo è una delle espressioni più alte della nostra civiltà. Da sempre, le società hanno riconosciuto il dovere morale di offrire protezione a chi fugge dalla violenza e dall’ingiustizia. Dalle città di rifugio della tradizione biblica ai templi inviolabili dell’antichità greca, l’idea che la vita umana meriti protezione ha attraversato i secoli. Dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale, quando fu tragicamente evidente che nessuno doveva più essere abbandonato alla persecuzione o alla violenza, questo principio è stato codificato nel diritto internazionale, con la Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo Protocollo. Questi strumenti hanno trasformato un dovere morale in un impegno legale e collettivo, che ancora oggi rappresenta la base del sistema internazionale di protezione dei rifugiati. Questo quadro giuridico, nato in un’epoca di ricostruzione e speranza, ha salvato milioni di vite in ogni parte del mondo. Ha permesso a uomini, donne e bambini di ricominciare, di ritrovare dignità e futuro. Oggi, le atrocità commesse in diverse aree di crisi, civili uccisi mentre cercano aiuto o rifugio, ospedali e scuole ridotti in macerie, operatori umanitari colpiti come mai prima, testimoniano il sistematico abbandono delle regole in favore della forza brutale. All’interno di un mondo in cui il numero delle persone in fuga da conflitti e persecuzioni è raddoppiato nell’ultimo decennio - da 60 a 122 milioni - il diritto d’asilo si trova sotto una crescente pressione politica e operativa. In molti Paesi, soprattutto in regioni esposte a flussi migratori misti, i sistemi d’asilo sono sovraccarichi per molte ragioni: elevato numero di domande di protezione internazionale, molte delle quali presentate da richiedenti provenienti da Paesi con bassi tassi di riconoscimento; procedure spesso lente e complesse; risorse insufficienti; scarsa disponibilità di canali di migrazione legali. Tutto ciò compromette la capacità di proteggere efficacemente chi fugge da guerre, violenze, e alimenta la percezione che il sistema sia abusato. Più di settant’anni dopo il secondo conflitto mondiale, queste difficoltà vengono talvolta usate per mettere in discussione il principio stesso dell’asilo. Ma riscrivere o restringere le regole non fermerà le persone che fuggono dal pericolo. Servirà solo ad accrescere i rischi, l’irregolarità, la sofferenza.
Il diritto d’asilo non è sinonimo di frontiere aperte. È stato concepito per rispettare la sovranità nazionale e, al tempo stesso, garantire che nessuno venga rimandato nel Paese da cui fugge, verso la persecuzione o la morte. È un equilibrio delicato ma possibile, che ha dimostrato nel tempo efficacia e capacità di adattamento. Come ricordato recentemente dall’Alto Commissario per i rifugiati Filippo Grandi, i sistemi d’asilo non vanno aboliti o indeboliti, ma rafforzati. Funzionano quando sono ben gestiti, equi e rapidi, capaci di distinguere chiaramente tra chi ha diritto alla protezione e chi no. Investire in un sistema di asilo efficiente significa garantire decisioni giuste e gestite in modo da evitare ritardi ingiustificati, minori costi e ritorni dignitosi per chi non ha bisogno della protezione internazionale. Significa anche proteggere la credibilità del sistema stesso, che resta vitale per la sicurezza e la stabilità internazionale. Un sistema efficiente tutela i rifugiati, sostiene le comunità che accolgono e rafforza la fiducia dei cittadini. Per questo serve volontà politica, ma anche una cooperazione molto più forte tra gli Stati e risorse adeguate. I recenti tagli agli aiuti umanitari avranno un costo altissimo per tutti i paesi di primo asilo. Non solo umano, ma anche politico e sociale. Oggi oltre il 70% dei rifugiati vive in paesi a basso o medio reddito, spesso già in difficoltà a offrire servizi di base ai propri cittadini. Sostenere questi Paesi è una responsabilità e un investimento nella stabilità globale. Nessun paese dovrebbe essere lasciato solo a gestire l’accoglienza di milioni di rifugiati: la responsabilità, come dice il diritto internazionale, è condivisa.
Se i rifugiati possono lavorare, studiare e vivere in sicurezza, anche le società ospitanti ne traggono beneficio, in termini di coesione e sviluppo. Esperienze recenti in diversi continenti dimostrano che l’integrazione dei rifugiati non è solo un dovere umanitario, ma può generare crescita economica e rafforzare la sicurezza collettiva. Allo stesso tempo, gli Stati si devono impegnare ad ampliare le vie legali e sicure (reinsediamento, corridoi umanitari, programmi di studio e lavoro) per ridurre i viaggi pericolosi e colpire le reti criminali dei trafficanti. L’Italia, insieme al settore privato e la società civile, sta lavorando in questa direzione, portando avanti con i partner africani programmi per lo sviluppo economico e ampliando i canali di migrazione regolare, avendo anche introdotto nel 2023 le quote per la mobilità lavorativa dei rifugiati. Il diritto d’asilo non è dunque un concetto astratto né un residuo del passato. È il test concreto dei valori su cui si fonda la nostra convivenza. Difendere l’asilo significa scegliere la civiltà contro la paura, la legge contro la forza. In tempi segnati da conflitti, disuguaglianze e angoscia, non è solo un dovere morale, è un investimento nella stabilità e nella pace. La forza di una società si misura dalla sua capacità di non voltarsi dall’altra parte.
Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino
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