Guardare di più il cielo e meno gli schermi

L’adolescenza si è rinchiusa su sé stessa, e nella crisi del desiderio di nuovo e dell’ignoto ha visto crescere disagio e fragilità. Serve il confronto col mondo reale
November 30, 2025
Guardare di più il cielo e meno gli schermi
Oggi, la sfida più grande, all’interno di quella che da anni chiamiamo “emergenza educativa”, è riportare ragazzi e ragazze a vivere la vita reale e a esplorare il mondo che c’è fuori dalla zona iperprotetta delle loro camere. I dati degli ultimi anni ci hanno fatto assistere a un incremento costante di problemi nell’area della salute mentale in età evolutiva. Autolesionismo, disturbi del comportamento alimentare, ansia e depressione sono fenomeni sempre esistiti nel tempo dell’adolescenza, ma mai avevano assunto le dimensioni quali-quantitative degli ultimi anni. In molti hanno attribuito la responsabilità di questo fenomeno alle molte limitazioni che la pandemia da Covid ha imposto alla vita di tutti. Limitazioni che avrebbero impattato – però – in modo molto più intenso e significativo la salute dei minori. In realtà, il Covid ha fatto deflagrare una situazione critica che era in essere già dal 2012 e che anno dopo anno è andata sempre più deteriorandosi. È come se uno sciame sismico avesse continuato ad agire su una parete provocando crepe sempre più numerose; poi all’arrivo di una scossa tellurica più intensa quella parete – resa fragile negli anni – è caduta a terra e si è frantumata. Ciò che è accaduto all’adolescenza nell’ultimo decennio è molto simile all’immagine di quella parete che prima si riempie di crepe e poi si frantuma. Come hanno raccontato Jean Twenge nel suo saggio Iperconnessi e poi Jonathan Haidt in Generazione ansiosa, nel terzo millennio l’adolescenza è diventa una i-Gen, ovvero una Generazione dotata di i-devices (i-Pad e i-Phone) condizione che ha spinto ragazzi e ragazze, quasi senza rendersene conto, a dover abitare due vite contemporaneamente: la vita reale e la vita digitale. Sulla carta, questa condizione poteva rappresentare un’incredibile opportunità, in grado di amplificare orizzonti e campi d’azione. In realtà, quello che si è venuto a creare è stato un progressivo trasferimento delle esperienze dal mondo reale a quello virtuale. Gli schermi si sono trasformati in campi magnetici che hanno progressivamente risucchiato nel mondo dei social, dei videogiochi e della pornografia l’energia vitale dei giovanissimi, favorendo tutte quelle attività votate all’ottenimento della gratificazione istantanea e allontanandoli sempre più dal mondo reale.
L’adolescenza è sempre stata il tempo della speranza, della proiezione in avanti, della ricerca di sé e del proprio futuro. L’adolescente è sempre stato desideroso di scoprire l’ignoto che lo aspettava fuori dalla confort zone della sua casa. Il conflitto adolescenziale tra genitori e figli si è molto spesso strutturato all’interno di una dinamica in cui il figlio chiedeva di andare fuori nel mondo, mentre il genitore cercava di imbrigliare le sue uscite impaurito dai potenziali rischi che avrebbero potuto metterne a rischio l’incolumità. Il fatto che oggi pochissimi preadolescenti si muovano nel loro quartiere con le biciclette, che siano più numerosi gli adolescenti che desiderano un nuovo smartphone piuttosto di quelli che desiderano un motorino, che le statistiche riportino che il 50% dei neo-18enni non aspiri a diventare possessore di una patente di guida sono tutti indicatori di una crescita che rinuncia all’esplorazione preferendo la protezione e la gratificazione istantanea. C’è stata una drastica conversione nelle emozioni che guidano il tempo dell’adolescenza. Quando non sei più bambino ma non sei ancora adulto, la vita di chiede di essere equilibrista che cammina su un filo sospeso tra due territori emotivi: da una parte c’è la paura, dall’altra la sorpresa. La paura arriva e ti continua a dire che forse è meglio che smetti di muoverti, che ogni passo che fai potresti precipitare giù, che conviene tornare indietro e rinunciare a quella camminata verso un ignoto che potrebbe non avere altro da offrirti se non uno schianto a terra. La sorpresa, invece, combatte contro la paura: ti incita ad arrivare dall’altra parte. Ti dice: «Non fermarti: è vero, ogni passo ti mette a rischio, ma se arrivi dall’altra parte, sarai felice del tuo coraggio che ti ha condotto alla meta. E quel coraggio ti darà la chiave di accesso ad un nuovo mondo». Gli adolescenti, in questo precario equilibrio tra paura e sorpresa, hanno sempre puntato le loro fiches sulla sorpresa. Anche la loro dotazione corporea e le trasformazioni intrapsichiche li spingono in quella direzione. Il corpo cresce e si sviluppa, acquisisce forza e potenza e tutto questo contribuisce a sentirsi competenti nell’uscita verso il mondo fuori che, grazie ad un corpo che sa come muoversi, dove andare e come affrontare le sfide e le intemperie, non chiede più di essere accompagnato e supervisionato dall’onnipresenza dell’adulto che ti tiene per mano, ti scorta ovunque e ti protegge. Al tempo stesso, nel tuo cervello emotivo si accende un bisogno estremo di sensation seeking , ovvero di sperimentare nuove emozioni cui non puoi avere accesso se rimani confinato nel consueto territorio della tua cameretta.
Sono questi due dispositivi corporei e mentali, innescati dall’ingresso in pubertà, gli elementi che hanno reso sempre gli adolescenti desiderosi di andare fuori nel mondo, per scoprirlo e per scoprirsi. Per fare questo, l’emozione della sorpresa doveva tenere in scacco quella della paura. E in effetti, i ragazzi uscivano nel mondo e gli adulti stavano a casa ad attenderne il ritorno. Nei ragazzi esondava un’energia vitale incomprimibile che contrastava quell’ansia divorante che invece era di pertinenza dell’adulto, soprattutto quando il rientro a casa non avveniva entro l’ora limite che era stata stabilita e imposta. Ma oggi tutto questo non avviene più. Il genitore del passato che diceva a un figlio rientrato in ritardo (e che quindi lo aveva spaventato a morte): «Questa casa non è un albergo» oggi invece bussa alla porta chiusa della stanza in cui quello stesso figlio si è autorecluso e con voce flebile, gli intima «Perché non esci da quella stanza? Non c’è un amico là fuori che ti aspetta?». È dentro a questa crisi del desiderio di nuovo e dell’ignoto che è là fuori che ti attende (visto oggi come più spaventante che sorprendente) che l’adolescenza si è rinchiusa su se stessa e ha visto crescere in modo esponenziale la sua sofferenza mentale, il suo disagio e fragilità. Rimettere il desiderio e la speranza nella vita dei nostri figli e figlie, significa prima di tutto ri-abilitarli al mondo reale, permettere loro di confrontarsi con il principio di realtà, al di fuori dell’eccitazione e dell’ingaggio dopaminergico che li rinchiude nella trappola della gratificazione istantanea che poi si trasforma in addiction e che riduce l’istinto esplorativo che connota in modo potente questo tempo della vita.
Da tempo i pediatri denunciano un fenomeno mai visto prima in età scolare: l’aumento esponenziale di bambini e bambine miopi, che non vedono bene ciò che sta distante da loro. Abituati fin da piccoli a tenere in mano un mondo sempre acceso che è a distanza ravvicinata, sin dalla più tenera età i nostri figli non alzano più lo sguardo sulla vita, alla ricerca di quella linea dell’orizzonte dove il desiderio di infinito li attende e li sfida al tempo stesso. È dal valore simbolico che assume questa “epide-miopia” che si devono ripensare il mondo e l’età evolutiva. Perché, oggi più che mai, ridare speranza al futuro significa nutrire la vita di chi sarà l’adulto di domani di una tensione che lo spinge a tenere lo sguardo rivolto verso il cielo e non verso un piccolo schermo di cristallo, abitato da milioni di pixel.
Alberto Pellai è medico e psicoterapeuta dell’Università degli Studi di Milano. Autore, insieme a Barbara Tamborini, di “Esci da quella stanza. Come e perché riportare i nostri figli nel mondo” (Mondadori ed.)

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