Fine vita: al centro della Costituzione le persone e la loro salute. Cure palliative, diritto di tutti
di Stefano Amore
Malgrado siano inserite nei Livelli essenziali di assistenza, le cure palliative non sono disponibili in modo universale e uniforme in tutto il Paese. Ma sono un supporto fondamentale: è ora di applicare la legge 38 che le prevede

Cosa significa oggi curare le persone in situazioni di sofferenza estrema? Serve una nuova legge sul fine vita? Che princìpi deve rispettare? E qual è il confine tra tutela della vita e della libertà? Con la serie di articoli "Scegliere sulla vita" ascoltiamo voci e sensibilità differenti, in dialogo tra loro. Interviene il giurista Stefano Amore.
La disciplina italiana in materia di cure palliative si fonda principalmente sulla legge 15 marzo 2010, n. 38, intitolata “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”. Si tratta di una legge accolta con estremo favore già all’epoca della sua approvazione e considerata innovativa nel panorama europeo, poiché riconosce a ogni cittadino il diritto di accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore, senza discriminazioni, lungo tutto il percorso della malattia e non solo nella fase terminale. Fondamentale, nella prospettiva di attuazione della legge, è stata poi l’inclusione delle cure palliative nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), avvenuta con il Dpcm del 12 gennaio 2017 e la successiva previsione contenuta nell’art. 2 della legge n. 219 del 2017. Infatti, se già la legge n. 38 del 2010 aveva riconosciuto il diritto dei cittadini ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore, solo con l’aggiornamento dei Lea queste prestazioni sono diventate obbligatorie perché siano uniformemente garantite su tutto il territorio nazionale. Questa innovazione ha reso, infatti, le cure palliative un diritto concretamente esigibile, parificandole ad altre prestazioni fondamentali del Sistema sanitario.
Tuttavia, sono rimaste significative differenze nell’assistenza erogata tra regione e regione: in alcune di esse, infatti, si possono riscontrare reti di hospice e di assistenza domiciliare ben strutturate, mentre in altre i servizi a disposizione sono ancora estremamente frammentari e carenti. La stessa Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 66 del 2025, ha evidenziato che oggi in Italia non è ancora garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, domiciliari e ospedalieri, che vi sono spesso lunghe liste d’attesa (intollerabili in relazione a chi versa in situazioni di grave sofferenza) e che sovente si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata.
I problemi rilevati dalla Corte denunciano, in realtà, non solo carenze organizzative ma un vero problema culturale, perché le cure palliative continuano a essere associate dalla maggioranza della popolazione solo al fine vita, mentre la legge le concepisce come un supporto significativo anche nelle fasi avanzate delle malattie croniche. Si tratta di una posizione legislativa che va considerata estremamente avanzata e importante in un momento storico, come quello attuale, in cui la ricerca sanitaria, supportata dall’intelligenza artificiale, sta raggiungendo esiti tali da consentire la soluzione positiva di malattie considerate incurabili sino a qualche anno fa. Nonostante ciò, molti pazienti utilizzano le cure palliative solo nelle ultime settimane o negli ultimi giorni di vita, quando queste sarebbero state estremamente utili già molto prima. Inoltre, è un dato di fatto innegabile che il passaggio dall’ospedale all’assistenza domiciliare o all’hospice risulta, in molti casi, estremamente complesso.
Si tratta di problematiche, evidentemente, su cui non ha alcun senso evocare contrapposizioni politiche o ideologiche, considerata l’assoluta centralità della persona nell’ordinamento giuridico italiano e la tutela della salute come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» assicurata dall’articolo 32 della Costituzione. Questa visione, garantita dalla nostra Carta, rappresenta, anzi, uno dei punti di contatto più significativi tra l’ordinamento italiano e la Dottrina sociale della Chiesa che, fin dall’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, ha sottolineato come i diritti della persona siano radicati nella sua intrinseca dignità e debbano essere riconosciuti e rispettati dall’ordinamento civile. Anche papa Francesco aveva ribadito in più occasioni questo principio, ricordando che «la salute non è un bene di consumo, ma un diritto universale» (discorso al Consiglio nazionale dell’Ordine dei Medici, 2019), invitando a costruire Sistemi sanitari fondati sulla cura della persona nella sua totalità, specialmente dei più fragili. «Sulla vita non ci possono essere polarizzazioni o giochi al ribasso» ha affermato il cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, nell’introduzione al recente Consiglio permanente dei vescovi italiani a Gorizia. È una conclusione che dovrebbe valere senz’altro anche per le nostre istituzioni.
Magistrato, componente del direttivo romano dell’Unione giuristi cattolici italiani (Ugci)
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