Ecco cos'è quella follia disarmante che ci tiene in vita
di Raul Gabriel
Sperare non è un merito, né un valore, né tantomeno una scelta: è il passo obbligato dell’esistere, condanna e sollievo che accompagna l’agitazione del mondo

Il cecchino spera di centrare il bersaglio per una medaglia al valore o un congedo premio, il miliardario ambisce a scalare i ranking Forbes, il povero tenta la lotteria, il funzionario si consuma nell’attesa dello scatto di carriera che lo avvicini finalmente all’olimpo kafkiano dei capi, il social addicted si dedica con devozione religiosa alla spasmodica ricerca di più like e followers, il fedele questua un trattamento di favore nelle prevedibili lunghe code dell’aldilà, il risparmiatore ansioso confida che l’oro raggiunga quotazioni mai viste. L’umanità spera così tante speranze variegate e contraddittorie da rendere impossibile qualunque sintesi morale. Eppure è molto semplice. Sperare non è né un merito, né un valore, né tantomeno una scelta. È il passo obbligato dell’esistere, condanna e sollievo che accompagna l’agitazione del mondo come una malattia incurabile.
Qualche giorno fa, appena fuori la cucina, nel bosco domestico dei pensieri e delle piante che a volte si infittisce troppo fino a dimenticare l’orizzonte, ho spiato la danza di alcune farfalle popolari, bianco spreco gioioso e insensato impegnato a diffondere le sue energie preziose nell’aria incurante che lo perderà, senza chiedere nulla in cambio. Non danzavano come una disciplina da assolvere in cambio della ricompensa, una promozione o il posto in paradiso, finanziario o spirituale lascio decidere all’utente. Danzavano mosse da una spinta primordiale che chiamerò amore perché altrettanto meravigliosamente stolta, con le sue coreografie che non intendono nulla se non il miracolo nell’istante del suo realizzarsi, per svanire come non fosse mai stato.
Ragioni della speranza, si dice, con la equanime, noiosa e un po’ vile rassegnazione che è comune definire saggezza, velata di una certa presunzione pedagogica lontana anni luce dal crinale insidioso dell’essere. Si immagina così di poter azzerare i debiti insolvibili del dubbio con l’obolo di endorfine temporanee che ogni generalizzazione ragionevole spreme dalla natura irrazionale di ciò che realmente siamo, incidenti provvidenziali di percorso liberati nella polvere da un esubero di vita fin troppo generoso. Le ragioni della speranza sono la tentazione di un racconto che all’azzardo vorrebbe sostituire la disfatta accettabile della parestesia semincosciente e ovattata dei buoni sentimenti in cui amiamo perderci, immaginando che alla fine, chissà perché, tutto andrà bene.
Indifferenti ai sermoni dei predicatori e alle peripezie interpretative dell’intellettuale, ragione e speranza rimangono ciò che sono: straniere irriducibili costrette alla coabitazione forzata dall’impulso irrefrenabile ad addomesticare la realtà che assilla da sempre gli esseri umani e la loro fissazione per un controllo che non possono avere. Lirica e concreta, la speranza è il nostro corpo costretto nel tunnel temporale del divenire che fatalmente ne conduce la contraddizione verso il non senso. Un corpo cui non servono ragioni che risolvano la sua sconsideratezza fulgida, bagliore passeggero che ci sorprende e se ne va. Non si convince alla speranza perché la speranza non è convincente per statuto, diapason instabile inscritto nel codice genetico di una eternità promessa come in sogno. Entra in risonanza solo se incontra la imperfezione della frequenza viva, non le formule da cerimonia della società bene cui viene facile immaginarla come proiezione della vita ordinata e protetta nel guscio rassicurante di fortune passeggere, sempre immeritate a fronte della umanità disgraziata cui è chiesto quotidianamente il sacrificio delle viscere per un sorso d’acqua, senza risposta.
Le ragioni ragionevoli della speranza, a meno di non confonderle con le aspettative pur legittime di ciascuno che non sono “ragioni” ma aspirazioni velleitarie proiettate ingenuamente sul baratro insondabile dell’incertezza, appartengono a chi ama perdersi nei meandri artificiosi delle dissimulazioni lessicali. Si può ragionarci, per piacere intellettuale e meditazione fertile utile a nuove idee e riflessioni inedite. Non cambia nulla: la cultura della speranza è il fantasma di un’araba fenice che non risorge dalle ceneri semplicemente perché non è mai nata. La speranza non percorre tragitti, non migliora e non peggiora, non si perfeziona, non ne ha tempo e voglia, impegnata com’è nell’attendere con ostinazione sconcertante l’attesa che non attende nulla, faro cui sembra sia stato negato il mare. Perché è quel mare, atto unico, ondivago e istantaneo, indomabile persistenza dell’essere, qualunque forma prenda, qualunque affronto subisca. Con l’illusione, sua sorella minore, condivide la consolazione sospesa di una carezza ruvida, confusa nella memoria di paludi imperscrutabili che accolgono morti e vivi accomunati dall’unico destino solitario dello scomparire, per i più sensibili dirò trasformarsi. Non di rado ci si affida alle nebbie labili della sua seduzione latitante che promette sollievo a portata di pensiero senza pagare pegno, nel vano tentativo di ingraziarsi la sdegnosa, aristocratica, eroica imprevedibilità che accompagna esistenze sparse a pioggia ovunque con la travolgente energia delle gramigne, in competizione perenne con la prepotenza eletta del grano. La speranza riunisce il raccolto, ne esalta l’incanto, lo consegna alla falce.
La speranza non è relazione, è una predisposizione, uno stato d’animo, un atteggiamento verso il mondo, né garanzia né promessa, né l’oasi che si intravede da lontano. È il sussulto della rana di Galvani, riflesso testardo di uno spirito impotente che comunque, qualunque cosa speri, dovrà cedere tutto senza contraccambio, in bilico sul baratro della resa unilaterale, vera unica forza di ogni fede autentica. Follia dalla naturalezza disarmante, accoglie ogni istanza nel tritacarne comune e indifferenziato della umanità, destinata alla dispersione. La speranza non risana le ferite, strazia la carne che anestetizza, refrattaria e un po’ disgustata dal baratto sottobanco che ognuno tenta di siglare per proprio conto con il destino o il proprio dio, mettendo sulla bilancia pensieri, riti, preghiere e asset finanziari come al mercato delle pulci, in qualche angolo nascosto, dove, per pochi soldi, si azzuffa senza ritegno ogni sorta di mercanti e compratori.
Spera il silenzio screziato della pietra che stride sul venerdì imperscrutabile come un sigillo, sostanza di ciò che siamo racchiusa in quello spazio minimo dove ogni barlume di fiducia asciuga fino al buio di una notte così buia da farci dimenticare che un giorno abbiamo avuto l’impressione di vederlo, il fuoco fatuo di un miraggio svanito nel volgere di un niente, sirena confusa per il porto che conduce ogni marinaio alla terra desolata di Eliot. Ai profeti, ai maestri e a quelli di buona e cattiva volontà: non vi affannate, la speranza gioca a nascondino con la inesauribile, ingenua irrequietezza che preme come un pungolo sulle nostre solitudini, muore senza morire, agisce senza essere indotta, danza la sua danza come la traccia flebile di un amore senza condizioni che è stato, da qualche parte, e, speriamo, da qualche parte sarà ancora.
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