Due milioni di israeliani in piazza sono un sussulto di coscienza per Gaza
Dalla gente in piazza per il ritorno degli ultimi 50 ostaggi, di cui forse solo 20 vivi, e perché finisca la guerra un invito a non abbassare lo sguardo di fronte alle vittime della Striscia

Ora arrivano migliaia di tende. L’ordine è di evacuare Gaza City, dice il parroco della Sacra Famiglia, Gabriel Romanelli. Ma come faranno, dove metteranno due milioni e 300 mila persone, si chiede angosciato. Intanto, domenica 57 palestinesi morti, e già 17 stamattina all’alba. Più cinque morti per fame. Certo, lo dice il Ministero della Salute palestinese, ci sarà da crederci? E quelle foto della folla con le pentole in mano, in attesa di cibo, non potrebbero essere fake di propaganda?
Si ascoltano in Occidente raffinati dibattiti sull’argomento. Ma, ammesso anche che un fotografo abbia cercato uno scatto confezionato, temiamo che la gente con le scodelle vuote, le donne con la disperazione in faccia, siano assolutamente reali. Sui tg di tutto il mondo compare e ricompare il premier Netanyahu, e assicura che a Gaza non c’è fame. Pochi secondi, e una sequenza di immagini insostenibili lo smentisce. Tutte fake? Il Patriarca Latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, è stato a Gaza, testimone: fame, ha denunciato, e una situazione insostenibile. Lo ha detto anche il Papa. Lo ha detto ieri Amnesty International. Una domanda ingenua: chi mente? La fame a Gaza c’è, o se la inventano i nemici di Israele? Anche quelli che ne sono da lunga data amici?
Una notizia buona però, a cercarla, c’è in questo Ferragosto drammatico tra i rimpalli vani di Anchorage, e Kiev e il Medio Oriente. Lo sciopero generale in Israele, domenica: la gente in piazza per il ritorno degli ultimi 50 ostaggi, di cui forse solo 20 vivi, e perché finisca la guerra. Lo sciopero è iniziato alle 6.29, l’ora del massacro, l’ora dell’incubo. Eppure proprio in quell’ora centinaia di migliaia di israeliani sono usciti di casa con le bandiere e gli altoparlanti, e hanno bloccato le autostrade e invaso la Piazza degli Ostaggi a Tel Aviv. Il fumo acre degli pneumatici bruciati ha riempito l’aria, un odore acre di ribellione. Nelle immagini sul web si percepisce l’angoscia per quei figli che continuano a essere chiamati al fronte, lo sfinimento per l’avversione che questa guerra ha creato nel mondo attorno a Israele, l’incredulità per ciò che è stato fatto dal Governo a Gaza. In risposta al 7 ottobre, al fondo del male. Ma si può rispondere al male con il male, per sempre? Andare avanti per sempre, ciecamente, credendo di sterminare l’ultimo dei nemici – quando già i figli nel grembo delle donne di Gaza venendo al mondo respireranno odio, e ricorderanno.
Si può uccidere, vendicare – elencando tutte le proprie solide ragioni – senza finire mai? Guardando a questi due anni fra Israele e Gaza, parrebbe di sì. Come, del resto, smettere di odiare chi ha massacrato i tuoi figli, le tue donne, nel modo che sappiamo, nella notte dei kibbutz?
Eppure ci deve essere una fine. Ci deve essere un momento in cui riconosci, nella faccia di una giovane palestinese china su un fagotto bianco immoto, gli occhi di tua figlia. Un momento in cui nei bambini randagi nelle macerie di Gaza - saranno fake anche quelli, ma quanto ricordano le rovine di Dresda quegli scheletri di case incenerite – vedi tuoi bambini. Lo stesso sguardo, la stessa domanda.
Ci deve pur essere infine quel momento, in cui come svegliandosi da un dormiveglia maligno si è stanchi, e si vuole dire basta. Nessuna vendetta può essere eterna. Le donne che gridavano a Tel Aviv «gli ostaggi a casa», «che finisca la guerra», sono forse le madri di diciottenni chiamati al fronte, nell’ora in cui il governo prepara la deportazione di oltre due milioni di palestinesi da Gaza. Quelle donne, quei padri cercano di fermare altra morte. Nessuna morte li consolerà, di quella dei loro figli. Una parte di Israele apre gli occhi, domanda ad alta voce nelle piazze: «Che possiamo vivere insieme in questa terra, per altre centinaia di anni». Utopia? Non più che immaginare che la deportazione di un popolo intero possa portare a Israele pace e sicurezza.
In che sperare, se non nella coscienza di Israele. Che non può essere quella di Netanyahu, ma di gente che vuole restare in quella terra, e avere figli, e continuare la sua storia. E forse oramai capisce, sa nella pelle che, se si vuole vivere, non si può odiare per sempre.
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