Dove la «grandeur» della Francia mostra il suo volto fragile e dolce

A Colombey les Deux Eglises, sotto la grande croce di Lorena, De Gaulle, si raccoglieva in preghiera. Ma anche per stare con la figlia Anne, affetta da sindrome di Down
September 6, 2025
Dove la «grandeur» della Francia mostra il suo volto fragile e dolce
La grande croce di Lorena a Colombay
"Hei, mondo! Io ci sono e non me ne andrò più di qui tanto facilmente". Ogni volta, i vagiti di un neonato dicono pure questo: difendere il proprio diritto di esistere. In proposito, lungo la Francigena transalpina proiettata verso Roma, dopo i colori e profumi della Champagne, si può scoprire che non solo i bebè lanciano simili richiami tonanti. A volte, capita pure alle nazioni, specie in mezzo a rischi vitali. Sulle sponde dell’Aube, guardando a oriente, appare in lontananza, fra fitti boschi, una croce chiara su una collina. Più precisamente, una croce patriarcale dotata di una seconda traversa più breve in alto, proprio come sugli stemmi dei patriarchi cattolici. Lo stesso simbolo che i francesi chiamano "croce di Lorena", perché in uso lì fin dal Rinascimento. Quando ci avviciniamo, la croce si rivela colossale. Persino più alta del tetto appena restaurato della Cattedrale Notre-Dame di Parigi. Tanto da sovrastare il borgo di Colombey les Deux Églises, nell’Alta Marna. Ma le sorprese non terminano qui, perché la croce monumentale segnala la culla stessa della Quinta Repubblica voluta, nel 1958, dal generale Charles de Gaulle. Non a caso, ancor oggi, i big della politica guadagnano spesso Colombey, dove riposa il personaggio francese centrale del Novecento e quello su cui si è più scritto in assoluto, al pari di Napoleone.
"Vedete questa collina? È la più alta. Quando sarò morto, sarà edificata qui una croce di Lorena", disse un giorno il Generale. Ma non siamo in una canzone di De Gregori. A risuonare dietro la collina è ancora il "no" dei francesi all’occupazione nazista. Un "no" che il capo morale della Resistenza volle associare al simbolo cristiano della croce di Lorena, da allora emblema della Liberazione. Occorreva opporre un’altra croce a quella uncinata, ritrovando la speranza di un’antica promessa: In hoc signo vinces. Il toponimo di Colombey les Deux Églises suona così all’orecchio dei francesi come l’eco di un vecchio urlo collettivo di sopravvivenza. E a pensarci bene, dietro la grandeur sventolata in seguito da Parigi ai quattro cantoni, non c’è forse la scia di quello smarrimento epocale? In proposito, osserviamo per un po’ le famiglie giunte a Colombey. Visi che esprimono un bisogno di non dimenticare, come le innumerevoli narrazioni dedicate a quell’epoca, fra sceneggiati, film, romanzi, documentari. Ai piedi della croce in granito rosa bretone, risalente al 1972 e alta più di 44 metri, visitiamo il vasto museo-memoriale più recente (2008) dedicato al Generale, in cui si sottolineano pure le divergenze fra lo statista e la classe politica del tempo. In effetti, molti mal digerivano di avere a che fare con una leggenda vivente dalla personalità tanto ingombrante. "Mi chiamano quando in Francia tutto va male. Mi dimenticano quando tutto va bene", sentenziò de Gaulle, imponendo alla fine la propria visione di un esecutivo forte rispetto al Parlamento.
Colombey affascina e spiazza, sempre in bilico lungo una frontiera sottile: quella fra gesta pubbliche e vita privata del Generale. Nella chiesetta, una croce di Lorena è incisa sul banco in cui lo statista, assiduo praticante, si raccoglieva in preghiera. Di che far storcere oggi il naso, talora, a un mondo politico che esibisce distanza e spesso diffidenza verso la fede, nella scia della legge del 1905 di separazione fra Chiese e Stato. Ma le tracce più eloquenti dell’uomo del gran riscatto francese si trovano alla Boisserie, il vasto podere isolato che de Gaulle scelse come residenza principale fin dagli anni Trenta, incurante della distanza dalla capitale, raggiungibile in treno da Bar-sur-Aube. Già, proprio l’uomo ancor oggi associato al centralismo parigino aspirava a una vita da provinciale. Basti pensare che de Gaulle soleva rientrare regolarmente a Colombey pure nel decennio 1959-1969 in cui fu presidente, restando in contatto con Parigi attraverso un telefono relegato in un sottoscala, dato che il Generale detestava quell’aggeggio. Lo statista apprese in quell’angolo scomodo e buio tanto della costruzione del Muro di Berlino (1961), quanto della sconfitta al referendum che lo spinse alle definitive dimissioni. "Amava passeggiare ogni giorno nel parco ed era un po’ un ecologista ante litteram, dato che faceva falciare l’erba solo una o due volte l’anno", ci dice Aurore Jacquinot, responsabile del sito, conducendoci verso la residenza.
Varcare la soglia della Boisserie significa immergersi in una sorta di fiaba, tanto il luogo è fuori dal tempo e dagli schemi. Ancora di proprietà degli eredi del Generale, la residenza è visitabile grazie alla fondazione dedicata all’ex presidente, il quale usò la dimora solo una volta in chiave di politica internazionale: "Accolse privatamente in casa, proprio come un amico, il cancelliere Konrad Adenauer, che regalò a Yvonne de Gaulle una pregevole statua in legno sul tema della Pietà. Un momento molto importante, le premesse della riconciliazione", sottolinea Aurore Jacquinot. La cantante e partigiana Joséphine Baker, invece, giunse con una croce cristiana, anch’essa in mostra oggi con numerosi altri oggetti religiosi. Fra una stanza e l’altra, poi, emergono pure due amori segreti di de Gaulle in grado di mettere in luce l’uomo. L’ossessione costante dello statista, certo, fu di issare la Francia quanto più in alto nel concerto delle nazioni. Ma a sorpresa, nell’unica stanza proibita persino ai figli, lo studio con vista sulla valle dell’Aube, spiccano in bella mostra dei simboli che rinviano all’Italia. A sinistra della scrivania, una statuetta del condottiero veneziano quattrocentesco Bartolomeo Colleoni, nato a Solza, sulla sponda bergamasca dell’Adda. De Gaulle lo ammirò sempre come stratega. A destra, invece, una preziosa riproduzione della Lupa capitolina. All’ingresso dello studio, poi, un’iscrizione evoca Pietro Savorgnan di Brazzà, l’ammirato esploratore ottocentesco italiano, naturalizzato francese, che diede il nome a Brazzaville, capitale dell’attuale Repubblica del Congo.
Così, affacciato sulla Via Francigena che punta verso Roma, lo studio in cui il Generale scrisse le sue memorie appare pure a buon diritto come un inaspettato antro d’italofilia. Tanto che, per favorire schiarite nelle relazioni italo-francesi ciclicamente agitate, verrebbe quasi da suggerire visite congiunte sul posto. Ma la scelta d’insediarsi fra i boschi dell’Alta Marna fu legata innanzitutto a una figura femminile di cui i libri di storia parlano ben poco. Eppure, il Generale scrisse: "È lei ad avermi aiutato a scavalcare tutti i fallimenti e tutti gli uomini, a guardare più in alto". Si tratta della figlioletta Anne, affetta dalla sindrome di Down. Morta a 20 anni, veniva chiamata "Gioia mia" da de Gaulle e ha avuto l’onore tardivo, nel dicembre 2022, di dare provvisoriamente il nome al grande aeroporto parigino dedicato al padre, nel quadro della Giornata internazionale delle persone con disabilità. Ecco dunque un altro scrigno di segreti svelati ai viandanti sulla Francigena. Dietro la famosa grandeur gollista, spesso associata all’arroganza, ci furono in origine pure ingredienti sorprendenti. La toccante tenerezza paterna rivolta all’estrema vulnerabilità di Anne, come se in quei piccoli occhi de Gaulle vedesse pure il volto sofferente della Francia occupata, da redimere a ogni costo. Accanto a ciò, l’ammirazione profonda per una nazione sorella, l’Italia, verso cui la Francia ha "un debito venti volte secolare", come disse ad esempio pubblicamente nel 1959 a Solferino. Al momento di ripartire, l’impressione è di lasciare luoghi abitati per sempre dalla voce di Édith Piaf, mentre intona un inno al riscatto collettivo contro la malasorte, come Le Cri du cœur. Letteralmente, "il grido del cuore": "Non è solo la mia voce che canta. È l’altra voce, una folla di voci, voci d’oggi o di una volta". Già, proprio l’urlo vitale di chi, senza più maschere come un neonato, difende il proprio diritto di esistere e conservare il gusto d’un avvenire migliore.

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