Dopo le Regionali, lessico dell'odio da disarmare
Caro direttore, al termine della campagna per le elezioni regionali vale la pena di tornare sul tema del linguaggio politico usato da alcuni partiti e ripresi da vari media. Certi toni usati per affrontare la questione delle migrazioni e dei diritti delle minoranze, tra cui i rom, sono stati inaccettabili. In particolare, a seguito del drammatico incidente stradale di Roma, in cui è morta la signora Corazon, quarantenne madre di famiglia, abbiamo assistito a un crescendo di insulti, incitazione alla violenza, aggressività verbale e fisica di cui sono stati oggetto tutti i rom. Come se il fatto che la vittima fosse un’immigrata filippina scongiurasse il rischio di essere tacciati di razzismo se si inveiva pesantemente, com’è stato, contro gli investitori (tra l’altro, a quanto pare, minorenni). Da tempo si denunciano l’involgarimento e la violenza usati in particolare da gruppi populisti, ma allo stesso tempo si è tollerato che alcuni politici in tv, sui media e nelle piazze lanciassero espressioni gravissime; il risultato è che stiamo assistendo a una vera e propria istigazione all’odio razziale che deve essere fermata, come lo sarebbe negli altri Paesi europei. Incitare a investire, aggredire o cacciare un intero gruppo di persone, uomini, donne, bambini di varia età, condizione sociale, provenienza è niente meno che odio etnico. Siamo troppo abituati a uno storytelling politico, a una narrazione alimentata da ondate emotive che il web contribuisce a diffondere e incattivire. Dobbiamo respingere l’odio sistematico contro una categoria di persone individuata per “razza”, etnia, religione, colore, cultura. La campagna di “Avvenire” insieme a “Famiglia Cristiana” e alla Fisc «Anche le parole possono uccidere» così come la campagna «No Hate Speech» del Consiglio d’Europa hanno bene individuato l’impegno da assumere: anzitutto un’autoregolazione e codici di condotta che gruppi politici, stampa, social network devono adottare e che tutti dobbiamo impegnarci a rispettare e a far rispettare, senza cedere all’inerzia e all’impotenza. Sì, «le parole possono uccidere» le persone, la loro dignità e integrità e la coesione sociale di un Paese. Siamo consapevoli che la comunicazione sociale e politica è particolarmente difficile in tempi di scetticismo e ostilità. Ma i cittadini hanno diritto a essere informati in modo chiaro su alcuni nodi che i gruppi populisti usano per speculare, come dati e cifre corrette sull’immigrazione o sulla presenza rom nel nostro Paese. Non dimentichiamo che l’Italia è tristemente prima nell’Ignorance Index su 14 Paesi. Questo, per esempio, significa che gli italiani pensano che gli immigrati siano il 30% della popolazione, mentre sono il 7%, ritiene che il 20% degli immigrati sia musulmano, mentre lo è il 4%, e così via. Una ricerca scientificamente accurata nel 2008 ha dimostrato che su 40 casi di presunti rapimenti di bambini da parte di rom nessuna sottrazione era realmente avvenuta e nessuna condanna era seguita dopo la denuncia, ma tutto questo è caduto nel silenzio. Media non indipendenti sfruttano questa ignoranza e la nutrono, alimentano la violenza. È chiaro che, oltre al radicale cambiamento della comunicazione, occorre un massiccio investimento culturale e educativo per dire un «basta all’odio», che passi per un controllo sui fornitori di servizi Internet, un coinvolgimento dei giovani nelle scuole e nelle Università, la formazione di insegnanti e educatori e di nuovi operatori di pace che in tutte le sedi riportino e radichino nelle persone, e soprattutto nei più giovani, il dovere della verità e l’impegno comune a vivere insieme. *Deputata Pi-Cd e presidente Alleanza parlamentare contro razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa
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