Da Milano finalmente a Roma per consegnare il testimone ai figli
L’ultima tappa del viaggio fino in San Pietro, lungo la via Francigena, insieme ai ragazzi migranti delle scuole Penny Wirton

Si conclude qui, dopo otto tappe, un viaggio povero, lento e condiviso, da Milano a Roma, lungo la Via Francigena, per raggiungere piazza San Pietro e consegnare una lettera al Papa. È il “Cammino della Pace” che ha visto protagonisti i ragazzi delle scuole Penny Wirton, una rete di 65 associazioni i cui docenti volontari insegnano gratuitamente italiano ai migranti. Eraldo Affinati, scrittore e fondatore nel 2008 con la moglie Anna Luce Lenzi della prima Penny Wirton romana, ha raccontato ogni settimana una tappa di questo cammino. Che è terminato con l’apertura del Giubileo dei Giovani, lunedì 28 luglio.
Sembra quasi impossibile che oltre questo cancelletto al numero 1081 di via Cassia, a due passi dagli svincoli del raccordo autostradale romano, nascosto dietro all’incessante traffico in direzione del centro, inizi l’ultimo tratto della via Francigena: fino a non molti anni fa quello che oggi si chiama il parco dell’Insugherata era una boscaglia incolta ai margini della Giustiniana dove s’accumulavano relitti e rifiuti. Oggi lungo la carreggiata della consolare che lo delimita non smettono di spuntare, da soli o a piccoli gruppi, i pellegrini provenienti da nord: basta poco per individuare l’accesso e inoltrarsi dentro una zona verde fra le più sorprendenti della capitale. Sono sufficienti qualche centinaia di metri per trovarsi in aperta campagna: dalla primavera all’estate chi transita da queste parti potrebbe avere l’impressione di trovarsi nella British Columbia invece che nell’Urbe imperitura, ma forse un tempo gli antichi fedeli partiti da Canterbury e da ogni altra parte del Vecchio Continente alla ricerca dell’indulgenza papale attraversavano sentieri non dissimili da quelli di questa stupenda riserva naturale.
Tuttavia chi volesse ritrovare le radici e la missione spirituale dell’Europa contemporanea dovrebbe paradossalmente rivolgersi ai profughi che vengono dall’Asia: è quanto cerco di fare con Dawood Yousefi, originario di Daykundi, una provincia nel cuore dell’Afghanistan a maggioranza hazara. Parliamo in un luogo di straordinaria risonanza simbolica, all’ombra primordiale della Quercia intitolata a Leonardo Bonacci, detto Fibonacci, matematico pisano operante fra XII e XIII secolo, la cui opera introdusse l’uso dei numeri arabi in Occidente mutuandolo dalla scienza islamica. A proposito di ponti e legami fra civiltà nemmeno tanto invisibili. Roma è di là da quegli alberi, ma qui sembra di stare in un altro mondo.
Dawood racconta la propria odissea: «Sono nato nel 1987, da piccolo facevo il falegname e già frequentavo gli operatori della Croce Rossa. Il mio Paese era in guerra ma io non volevo uccidere nessuno e neppure essere ucciso. Ecco perché a sedici anni decisi di andar via. Insieme a pochi amici riuscii a farmi dare dodicimila dollari da un mio zio emigrato in Australia, coi quali finanziai il nostro viaggio durato undici mesi. Attraversammo deserti e montagne, schivando i colpi di fucile delle guardie di frontiera, saltando sulle mine antiuomo, trascorrendo giorni senza cibo e acqua».
Ho conosciuto tanti ragazzi come Dawood, che oggi collabora con Sant’Egidio nel tentativo di restituire quello che ha ricevuto, i quali hanno contribuito a farmi diventare ciò che sono, insegnandomi il valore del gesto a fondo perduto. Sento di essere debitore a Jan, Noruz, Alì, i miei primi allievi alla Città dei Ragazzi, come Dawood pronti a intrufolarsi fra le sospensioni dei Tir in partenza da Patrasso per attraversare il mar Adriatico e raggiungere l’Italia. Quante volte me lo hanno raccontato! Prima in aula dove insieme ai miei colleghi gli insegnavamo a leggere e scrivere, poi nella vita di adulti, visto che in molti casi ho continuato a seguirli: chi si è laureato, chi è diventato scrittore, chi imprenditore, chi meccanico, chi magazziniere. Alcuni sono finiti male, altri hanno trovato se stessi. Oggi sono padri di famiglia, ma per me resteranno sempre gli adolescenti che ho conosciuto sui banchi di scuola: carichi di entusiasmo e passione, sempre rispettosi, incredibilmente feriti e felici. Figli spirituali, non biologici, grazie ai quali credo di avere compreso nel profondo la missione giuseppina. Siamo qui uniti assai più di quel che pensiamo: facciamo una catena per passarci i mattoni necessari a costruire la casa dell’umanità, il cui progetto non conosceremo mai per davvero al quale comunque abbiamo deciso di dedicare la vita.
È questa la ragione che mi ha spinto a voler incrociare i loro cammini con il nostro: non solo fisici, ma interiori. Molti di quelli conosciuti da Milano a Roma adesso me li ritrovo qui perché non hanno voluto rinunciare al passaggio conclusivo che ci condurrà fino alle mura vaticane. Lungo il sentiero è bello riabbracciare Piero Arganini, che era stato insieme a me fino a Siena, stavolta accompagnato da Hamid, il ragazzo camerunense delle undici frontiere. Seduti sulla panchina, dove registriamo una scena del documentario che andrà in onda su Tv 2000 (mercoledì 30 luglio, ore 23:30, ndr), gli chiedo cosa pensi di tutte le persone incontrate prima di raggiungere l’Italia: e lui, che pure ha vissuto esperienze tali da averlo fatto diventare adulto anzitempo, esclama convinto: « Non siamo cattivi!». Si tratta di una convinzione oppure di un augurio? Lascio in sospeso la questione pensando piuttosto alla poesia che, sul medesimo tema, mi regalò, inventandola così, di sana pianta, Tijan Bah quando andai in Gambia insieme a lui e gli domandai se nella vita erano di più i buoni o i cattivi. Il ragazzo mi disse: « Porof (non sapeva ancora pronunciare bene la parola professore), di cattivi ce ne sono tanti, ma i buoni contano di più».
Quando, dopo aver superato il quartiere Trionfale, raggiungiamo il belvedere da cui, in mezzo al magnifico frantume di tetti, colonne, palazzi, archi e monumenti, spunta la cupola della basilica di San Pietro, come non essere inclini a far nostre queste parole? Il tratto finale in Via della Conciliazione lo percorriamo seguendo la croce copta e il vessillo color arcobaleno sventolato da Bashir, egiziano conosciuto sui banchi di scuola. Indimenticabile quando lo rividi a Trieste, in giacca e cravatta, al Collegio del Mondo Unito, durante una conferenza: si presentò riccioluto e sorridente legittimando il discorso che avevo appena pronunciato.
Non poteva che essere lui il nostro portabandiera. La gente ci guarda incuriosita, alcuni gridano alleluia, io mi dirigo verso le Poste Vaticane all’interno del piazzale dove imbuco la lettera diretta a Papa Leone XIV. Poi raggiungo i volontari della Penny Wirton. Mia moglie, Anna Luce Lenzi, tiene in mano la pergamena con le parole appena raccolte da loro, sulle quali rifletteremo in occasione della prossima assemblea nazionale. Sono stati ore ad aspettarci e mi sento di dover ringraziarli mentre con un gruppo residuo entriamo a Palazzo Migliori, residenza nobiliare da Papa Francesco regalata ai poveri che da sempre girano intorno alla Città del Vaticano. Al piano superiore c’è una terrazza che dà sulle colonne del Bernini: lì, in mezzo agli amici vagabondi in attesa della cena che come ogni sera viene distribuita alle diciannove, si conclude il nostro viaggio. Qualcuno ci chiede di associare alla speranza, a cui come sappiamo è intitolato questo giubileo, un pensiero personale.
Io scelgo l’espressione “consegnare il testimone”, quale momento di responsabilità fiduciosa nei confronti delle nuove generazioni. Lo faccio per amore del futuro pensando ad alcuni versi che Vittorio Sereni nella poesia Dall’Olanda dedicò ad Anna Frank : « L’amore è di dopo, è dei figli / ed è più grande. Impara».
(8 - fine)
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