Cosa insegna il caso Lisa Cook sull'indipendenza delle banche centrali

Difendere l’autonomia degli istituti non significa sostenere un’idea di economia senza politica, ma impedire che la politica usi la moneta per fini elettorali
October 7, 2025
Cosa insegna il caso Lisa Cook sull'indipendenza delle banche centrali
La consigliera della Federal Reserve Usa, Lisa Cook, in una pausa del simposio economico annuale della Fed di Kansas City a Jackson Hole, nel Wyoming
Perché difendere l’indipendenza delle banche centrali? La risposta è tanto facile quanto destinata a sparire dal dibattito: nel breve periodo stabilità dei prezzi e occupazione si ostacolano, nel lungo tendono a riconciliarsi. Se decide la politica dell’immediato, domina il breve e il conflitto s’irrigidisce. Se decide un’autorità credibilmente schermata dalla contesa politica, il lungo periodo riacquista cittadinanza. Non è un vezzo tecnocratico: è un bene pubblico, corroborato da una letteratura ampia (vedi Alesina e Summers) che associa indipendenza a migliori esiti sull’inflazione senza danni occupazionali. Oggi, però, l’esame è più severo. Negli Stati Uniti la Casa Bianca ha tentato di “silurare” Lisa Cook, componente del Board della Federal Reserve, stirando la clausola di rimozione fino a parlare di “giusta causa”. L’accusa – vecchie presunte frodi ipotecarie – è respinta come pretestuosa; due tribunali hanno congelato l’atto mentre la Corte Suprema ha sospeso tutto fino a gennaio. In caso di licenziamento si tratterebbe di un precedente dirompente: mai un presidente ha rimosso un membro del consiglio della Fed. Se la “giusta causa” diventa sinonimo di disallineamento politico, ogni alternanza di governo potrebbe “bonificare” il Board: banca centrale ridotta a dipartimento dell’esecutivo, moneta trasformata in bancomat elettorale. La questione non è se difendere Lisa Cook – ovvio che sì – ma quale forma di indipendenza serva nel mondo che abitiamo. Per mezzo secolo abbiamo vissuto dentro un “catechismo” economico: catene del valore ordinate, blocchi stabili, libero scambio come religione civile, Washington Consensus come grammatica. In quel contesto l’indipendenza era il complemento istituzionale naturale: àncora nominale dei prezzi; e, dove vige il doppio mandato (inflazione e occupazione) per la banca centrale, come in America, tecnocrati affidabili a bilanciare inflazione e occupazione lungo un orizzonte ampio. Quel mondo relativamente semplice è finito. Come ha ricordato Mario Draghi, oggi geopolitica, geoeconomia e sicurezza traboccano ovunque: energia, minerali critici, dati, pagamenti, forniture. Che cosa si intende, allora, per indipendenza? Tre pilastri: (i) controllo degli strumenti in capo alla banca centrale; (ii) obiettivi fissati dal legislatore (o dal trattato, in ambito sovranazionale), così da determinarne la legittimazione democratica; (iii) isolamento istituzionale mediante mandati lunghi, regole stringenti di rimozione, autonomia di bilancio e divieto di finanziamento monetario del Tesoro.
Storicamente, prima della Seconda guerra mondiale l’indipendenza è stata solo episodica. L’assetto compiuto nasce nel dopoguerra: negli Stati Uniti con l’Accordo del 1951; nell’Europa continentale con la progressiva istituzionalizzazione (emblematica la Bundesbank nel 1957); nel mondo anglosassone con l’ondata degli anni Novanta (Nuova Zelanda 1989; Banca d’Inghilterra nel 1997); quindi con la Bce. Cosa fanno in concreto queste istituzioni nei tempi normali (cioè fuori dalle crisi)? L’arsenale è noto: fissare il tasso obiettivo; fermare le aspettative di mercato (la credibilità costa meno della clava). L’obiettivo si raggiunge tramite operazioni di mercato aperto, remunerazione delle riserve bancarie e, talvolta, ritocchi ai requisiti di riserva obbligatoria. Un rialzo dei tassi raffredda credito e domanda e, con ritardo, l’occupazione; un cambio più forte attenua i prezzi delle importazioni ma penalizza le esportazioni. Simmetricamente, tassi troppo bassi a lungo gonfiano la leva di imprese e intermediari, drogano gli attivi e alimentano l’azzardo morale: la crisi del 2007–2008 lo ha scolpito nella memoria. Ma c’è di più. La politica monetaria oggi incide direttamente sul bilancio sovrano. Se i tassi salgono, la spesa per interessi cresce e il rischio di rifinanziamento accelera; quanto più corta è la durata media del debito, tanto più rapida la pressione. Si muovono i premi a termine e lo spazio fiscale si restringe. Tassi reali più alti riducono la capacità d’indebitamento pubblico e, se gli spread si allargano, finiscono per spiazzare l’investimento privato proprio quando la banca centrale vorrebbe soltanto ridurre l’inflazione. In breve: il sentiero ottimale dipende non solo dal gap di prodotto e dalle aspettative d’inflazione, ma dal bilancio dello Stato.
Gli effetti, poi, non si fermano ai confini. Paesi che detengono debito altrui vedono erodersi i portafogli quando salgono i rendimenti. Debitori in valuta estera soffrono quando i tassi globali corrono e la valuta di riserva si rafforza: il deprezzamento della valuta nazionale si scarica sui prezzi interni proprio quando i margini fiscali e monetari sono più stretti. È qui che il doppio mandato (prezzi e occupazione) mostra i suoi limiti come descrizione: l’ottimizzazione della politica monetaria, così, deve realizzarsi su molti più margini, inclusi quelli fiscali, finanziari e geopolitici. L’indipendenza allora non serve a depoliticizzare l’economia – impossibile – ma a tenere la politica contingente, quella delle contese elettorali, lontana dal volante della moneta. Richiede perizia tecnica, sì; ma oggi esige anche leadership di qualità: la capacità di spiegare scelte complesse, di negoziare confini istituzionali, di cooperare con governi e parlamenti senza diventare un’appendice dell’esecutivo. È autonomia responsabile, non autarchia tecnocratica. Come garantirla a monte? Difendendo in giudizio la clausola di rimozione “per giusta causa”, certo; ma anche alzando l’asticella della selezione e della conferma. Fino al 2013 il Senato americano ha operato come filtro di qualità: la soglia della super maggioranza per chiudere il dibattito impediva di piazzare il “fedelissimo incompetente”. L’erosione di quel filtro, voluta dai Democratici nel 2013 durante la presidenza Obama per contrastare l’ostruzionismo dei Repubblicani (quanta ingenuità!), ha introdotto la regola della maggioranza semplice. Reintrodurre – o comunque rafforzare – un requisito di consenso più ampio non significa paralisi: significa prevenzione istituzionale contro la cattura partigiana, perché le istituzioni non vengano occupate dalla mediocrità dei lealisti.
Morale, in chiusura. Se il caso Lisa Cook sdoganasse la rimozione creativa di chi non si allinea, l’America pagherà il conto in inflazione, volatilità e perdita di credibilità, più di quanto non abbia già perso. Difendere l’indipendenza non vuol dire fare economia senza politica: vuol dire impedire che la politica usi la moneta per fini elettorali. È la differenza – tutt’altro che semantica – tra un Paese che fa politica economica e un Paese che fa politica con la moneta. Tenere ferma questa linea non è un vezzo accademico: è un investimento sul capitale più scarso di cui disponiamo, la fiducia. E senza fiducia, come Draghi ci insegna, nessuna architettura – né finanziaria né democratica – può reggere a lungo.
Simone Maria Sepe è professore ordinario di Diritto e finanza alla University of Toronto

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