Collaborare con chi dà fastidio: sfida per la Chiesa
Gestire personalità “ribelli” e reattive è certamente più difficile che confrontarsi con chi è servizievole e deferente. Vale per un convento come per una famiglia. Ma “tamponare” non è la soluzione

Da dove cominciare la nostra riflessione? Non è facile, visto le grandi tematiche messe sul tappeto dagli articoli di Luigino Bruni e dalla nota firma di Fabrizio Mastrofini. Tematiche che mettono in primo piano ciò che attualmente sta vivendo la comunità ecclesiale, soprattutto dopo le sollecitudini emerse con il sinodo, recentemente conclusosi, sulla tenuta collaborativa della chiesa.
Collaborare con i laici? Collaborare con i diversi consulenti di scienza umane che vengono interpellati? Oppure all’interno delle équipe di operatori pastorali impegnati per la stessa missione evangelizzatrice? La parola chiave della nostra riflessione è «collaborare». O meglio l’incapacità a collaborare, caratterizzante la comunità ecclesiale nelle sue diverse espressioni.
Quando si è preoccupati unicamente di ridurre il disagio e ristabilire un equilibrio meno problematico, assume particolare importanza la promozione di tratti personali compatibili con le aspettative che si hanno verso chi opera nei diversi ambiti dell’azione pastorale. Nella chiesa ciò corrisponde ad una visione di persona che deve essere sempre pronta a dare il massimo, anche quando vive momenti di disagio personale molto pesanti. Tale stile, così diffuso nella formazione permanente della vita sacerdotale, è certamente funzionale per ripristinare alcuni aspetti idealmente preordinati che assicurino la tenuta del prete, capace di dare il meglio di sé anche a costo… della propria salute mentale. Se poi ci sono delle “ferite” che lo hanno fatto soffrire, avrà a disposizione i mezzi necessari per riparare il danno o tamponare il disagio, e così tornare ad essere pronto a ricominciare daccapo… a star male.
Cosa c’entra tutto questo con l’incapacità a collaborare nella chiesa? C’entra! Sicuramente c’entra ogni qualvolta tali situazioni sono vissute all’interno del presbiterio, o nel cortile della parrocchia, oppure dentro le mura del convento. Se da una parte i momenti di formazione permanente spiritualizzante sono salutari per ripristinare vecchie dinamiche che appartengono alla storia psichica del soggetto, dall’altra disabituano le persone a riconoscere nel disagio nuove opportunità di vita piuttosto che delle anomalie caratteriali da estirpare. Soprattutto se poi ci sono situazioni di grave disagio psicologico. Come si fa a “collaborare” con chi dà fastidio, con chi è ribelle, con chi vuole sempre aver ragione, con chi è di una cultura diversa, con chi… L’unica soluzione sarebbe: speriamo che se ne vada! Certo, da psicologo mi azzarderei a chiedere ai miei interlocutori – professor Bruni, dottor Mastrofini, monsignor Ceciotti – è certamente più facile collaborare con chi è passivo, recettivo, servizievole e deferente, piuttosto che con chi vive il suo carattere e i suoi tratti di personalità in modo reattivo ed emotivamente coinvolgente. Questo vale per le suore di un convento come per una coppia all’interno delle dinamiche di una famiglia.
Ma a tutto questo consentitemi di aggiungere una postilla, attingendo dalla mia esperienza clinica. Vi siete mai chiesti: e se quelle strane caratteristiche fossero condizioni di “disperazione emotiva” a cui anche un sacerdote può arrivare, da cui non riesce a uscirne se non esasperando le proprie fragilità interiori? È mai possibile “collaborare” con un confratello o con una consorella portatore di un disagio che affonda le sue radici nei traumi del suo passato? Un soggetto che vive una tale situazione può anche affacciarsi ad un corso di esercizi spirituali o di formazione permanente, o intraprendere un percorso di direzione spirituale, ma senza cambiare nulla della propria situazione intrapsichica, e senza neanche poter raccontare a nessuno il dramma che vive dentro di sé. Nel peggiore dei casi un tale soggetto potrebbe perseverare nel proprio disagio fino… alle estreme conseguenze, al punto da arrecare danno a se stesso o agli altri, come recentemente si è letto nei drammatici fatti di cronaca di una parrocchia del nord. In tali circostanze, la cosa peggiore è che il disagio psichico diventa una trappola mortale per il singolo ma anche un “problema spinoso” per la comunità in cui si trova. Un problema di cui volersi sbarazzare quanto prima.
A questo punto, cari interlocutori, consentitemi di dire, sempre in quanto psicologo e religioso: ciò che è brutto in tanti contesti ecclesiali è il considerare situazioni del genere come l’anello debole di quello che ci si aspettava dovesse essere… l’anello forte dell’azione e del carattere di un pastore. Così come è stato commentato recentemente in un articolo di Vatican.news da una conosciutissima firma della formazione della vita consacrata. Come se ci dovesse essere un’inossidabile “capacità di tenuta” a cui ogni presbitero debba aspirare anche in condizioni di tensione, uno status che garantisca una inalterabile maturità, una condizione che però non ha nulla a che fare con la situazione reale che la persona vive. Nella normalità dei casi, questo approccio (da me definito come “normalizzazione della patologia”), ha una sua validità funzionale per l’istituzione: se da un lato consente di alleggerire l’impatto logorante dei disagi psicologici nella comunità ecclesiale, dall’altro espone a un rischio significativo, quello di ridurre la gestione delle difficoltà a una sorta di “manutenzione ordinaria” fatta in casa, un processo di “sanificazione” ciclica che si limita a neutralizzare le tensioni attraverso ricette spiritualizzanti... in attesa che esploda il disagio successivo.
Un approccio alternativo a tutto questo è quello che vede nel disagio non tanto un male da estirpare ma piuttosto una chiave di lettura utile per comprendere le dinamiche disadattive che la persona vive in una prospettiva educativa. Se ci rifacciamo agli effetti che si hanno sulla salute mentale, la visione trasformativa e quindi educativa del disagio (piuttosto che la visione patoligizzante e marginalizzante) può dar luogo a esiti positivi, quando stimola l’individuo a investire in relazioni più autentiche e stimolanti. Si tratta di un metodo di vita incentrato non tanto sulla risoluzione puntuale dei disagi, quanto piuttosto sulla valorizzazione del processo relazionale che li attraversa. L’attenzione si sposta così dal contenuto del disagio al processo che esso genera: ciò che guarisce non è tanto l’eliminazione della tensione, ma il coinvolgimento consapevole della persona nel dinamismo relazionale del gruppo. In quest’ottica, la finalità non sarà più quella di cercare soluzioni “funzionali” perché l’individuo diventi più mansueto, o di promuovere tratti individuali “adeguati” che assicurino la tenuta psicologica del prete, bensì di favorire un percorso di crescita valoriale delle persone e del gruppo di appartenenza in cui è inserito (parrocchia, ufficio, comunità religiosa).
Inoltre, la valenza pedagogica di questo approccio collaborativo si radica nel contesto delle relazioni che le persone instaurano, che possono diventare luogo privilegiato di vita e quindi di formazione permanente. Paradossalmente, il rapporto con la diversità dell’altro, che talvolta si percepisce come logorante, può rivelarsi terreno fecondo in cui far maturare relazioni di autentica collaborazione. Miei cari interlocutori, lasciatemelo dire dal profondo della mia esperienza clinica, religiosa, e umana: era quanto auspicato dal sinodo sulla sinodalità, quanto desiderato dall’attuale giubileo, ma soprattutto è quanto vogliono le tante persone che vivono il loro disagio psichico nel silenzio della loro vita quotidiana, prendendosene cura ben consapevoli che la salute mentale è e continua ad essere un dono di Dio!
Missionario Comboniano
Collaborare con i laici? Collaborare con i diversi consulenti di scienza umane che vengono interpellati? Oppure all’interno delle équipe di operatori pastorali impegnati per la stessa missione evangelizzatrice? La parola chiave della nostra riflessione è «collaborare». O meglio l’incapacità a collaborare, caratterizzante la comunità ecclesiale nelle sue diverse espressioni.
Quando si è preoccupati unicamente di ridurre il disagio e ristabilire un equilibrio meno problematico, assume particolare importanza la promozione di tratti personali compatibili con le aspettative che si hanno verso chi opera nei diversi ambiti dell’azione pastorale. Nella chiesa ciò corrisponde ad una visione di persona che deve essere sempre pronta a dare il massimo, anche quando vive momenti di disagio personale molto pesanti. Tale stile, così diffuso nella formazione permanente della vita sacerdotale, è certamente funzionale per ripristinare alcuni aspetti idealmente preordinati che assicurino la tenuta del prete, capace di dare il meglio di sé anche a costo… della propria salute mentale. Se poi ci sono delle “ferite” che lo hanno fatto soffrire, avrà a disposizione i mezzi necessari per riparare il danno o tamponare il disagio, e così tornare ad essere pronto a ricominciare daccapo… a star male.
Cosa c’entra tutto questo con l’incapacità a collaborare nella chiesa? C’entra! Sicuramente c’entra ogni qualvolta tali situazioni sono vissute all’interno del presbiterio, o nel cortile della parrocchia, oppure dentro le mura del convento. Se da una parte i momenti di formazione permanente spiritualizzante sono salutari per ripristinare vecchie dinamiche che appartengono alla storia psichica del soggetto, dall’altra disabituano le persone a riconoscere nel disagio nuove opportunità di vita piuttosto che delle anomalie caratteriali da estirpare. Soprattutto se poi ci sono situazioni di grave disagio psicologico. Come si fa a “collaborare” con chi dà fastidio, con chi è ribelle, con chi vuole sempre aver ragione, con chi è di una cultura diversa, con chi… L’unica soluzione sarebbe: speriamo che se ne vada! Certo, da psicologo mi azzarderei a chiedere ai miei interlocutori – professor Bruni, dottor Mastrofini, monsignor Ceciotti – è certamente più facile collaborare con chi è passivo, recettivo, servizievole e deferente, piuttosto che con chi vive il suo carattere e i suoi tratti di personalità in modo reattivo ed emotivamente coinvolgente. Questo vale per le suore di un convento come per una coppia all’interno delle dinamiche di una famiglia.
Ma a tutto questo consentitemi di aggiungere una postilla, attingendo dalla mia esperienza clinica. Vi siete mai chiesti: e se quelle strane caratteristiche fossero condizioni di “disperazione emotiva” a cui anche un sacerdote può arrivare, da cui non riesce a uscirne se non esasperando le proprie fragilità interiori? È mai possibile “collaborare” con un confratello o con una consorella portatore di un disagio che affonda le sue radici nei traumi del suo passato? Un soggetto che vive una tale situazione può anche affacciarsi ad un corso di esercizi spirituali o di formazione permanente, o intraprendere un percorso di direzione spirituale, ma senza cambiare nulla della propria situazione intrapsichica, e senza neanche poter raccontare a nessuno il dramma che vive dentro di sé. Nel peggiore dei casi un tale soggetto potrebbe perseverare nel proprio disagio fino… alle estreme conseguenze, al punto da arrecare danno a se stesso o agli altri, come recentemente si è letto nei drammatici fatti di cronaca di una parrocchia del nord. In tali circostanze, la cosa peggiore è che il disagio psichico diventa una trappola mortale per il singolo ma anche un “problema spinoso” per la comunità in cui si trova. Un problema di cui volersi sbarazzare quanto prima.
A questo punto, cari interlocutori, consentitemi di dire, sempre in quanto psicologo e religioso: ciò che è brutto in tanti contesti ecclesiali è il considerare situazioni del genere come l’anello debole di quello che ci si aspettava dovesse essere… l’anello forte dell’azione e del carattere di un pastore. Così come è stato commentato recentemente in un articolo di Vatican.news da una conosciutissima firma della formazione della vita consacrata. Come se ci dovesse essere un’inossidabile “capacità di tenuta” a cui ogni presbitero debba aspirare anche in condizioni di tensione, uno status che garantisca una inalterabile maturità, una condizione che però non ha nulla a che fare con la situazione reale che la persona vive. Nella normalità dei casi, questo approccio (da me definito come “normalizzazione della patologia”), ha una sua validità funzionale per l’istituzione: se da un lato consente di alleggerire l’impatto logorante dei disagi psicologici nella comunità ecclesiale, dall’altro espone a un rischio significativo, quello di ridurre la gestione delle difficoltà a una sorta di “manutenzione ordinaria” fatta in casa, un processo di “sanificazione” ciclica che si limita a neutralizzare le tensioni attraverso ricette spiritualizzanti... in attesa che esploda il disagio successivo.
Un approccio alternativo a tutto questo è quello che vede nel disagio non tanto un male da estirpare ma piuttosto una chiave di lettura utile per comprendere le dinamiche disadattive che la persona vive in una prospettiva educativa. Se ci rifacciamo agli effetti che si hanno sulla salute mentale, la visione trasformativa e quindi educativa del disagio (piuttosto che la visione patoligizzante e marginalizzante) può dar luogo a esiti positivi, quando stimola l’individuo a investire in relazioni più autentiche e stimolanti. Si tratta di un metodo di vita incentrato non tanto sulla risoluzione puntuale dei disagi, quanto piuttosto sulla valorizzazione del processo relazionale che li attraversa. L’attenzione si sposta così dal contenuto del disagio al processo che esso genera: ciò che guarisce non è tanto l’eliminazione della tensione, ma il coinvolgimento consapevole della persona nel dinamismo relazionale del gruppo. In quest’ottica, la finalità non sarà più quella di cercare soluzioni “funzionali” perché l’individuo diventi più mansueto, o di promuovere tratti individuali “adeguati” che assicurino la tenuta psicologica del prete, bensì di favorire un percorso di crescita valoriale delle persone e del gruppo di appartenenza in cui è inserito (parrocchia, ufficio, comunità religiosa).
Inoltre, la valenza pedagogica di questo approccio collaborativo si radica nel contesto delle relazioni che le persone instaurano, che possono diventare luogo privilegiato di vita e quindi di formazione permanente. Paradossalmente, il rapporto con la diversità dell’altro, che talvolta si percepisce come logorante, può rivelarsi terreno fecondo in cui far maturare relazioni di autentica collaborazione. Miei cari interlocutori, lasciatemelo dire dal profondo della mia esperienza clinica, religiosa, e umana: era quanto auspicato dal sinodo sulla sinodalità, quanto desiderato dall’attuale giubileo, ma soprattutto è quanto vogliono le tante persone che vivono il loro disagio psichico nel silenzio della loro vita quotidiana, prendendosene cura ben consapevoli che la salute mentale è e continua ad essere un dono di Dio!
Missionario Comboniano
© RIPRODUZIONE RISERVATA






