C'è un fantasma sulla marcia trionfale di al-Sharaa: la Siria
In meno di un anno il presidente è passato da terrorista qaedista a interlocutore di Trump. Neppure le sanguinose lotte interne e la lunga ombra islamista che aleggia su di lui l'hanno fermato: eppure Damasco e l'intero Paese corrono adesso come non mai il rischio di un futuro a sovranità limitata. Ecco perché

Con l’udienza ottenuta alla Casa Bianca da Donald Trump, la crisalide Abu Mohammed al-Jolani ha definitivamente dato vita alla farfalla Mohammed al-Sharaa. Udienza, perché le modalità sono state di un’ottava sotto gli incontri tra Capi di Stato: ingresso da una porta laterale, photo opportunity ma niente conferenza stampa congiunta, forse per non urtare le sensibilità di Israele, protagonista unico della politica mediorientale Usa. Resta però il fatto che, proprio grazie al supporto di Washington, il presidente siriano ha compiuto una trasformazione straordinaria: entrato a Damasco nel dicembre 2024 come terrorista qaedista inseguito da una taglia dell’Fbi da 10 milioni di dollari, dopo pochi giorni era già riconosciuto come legittimo detentore del potere da tutte le cancellerie e in un solo anno è stato ricevuto all’Eliseo da Emmanuel Macron, ha incontrato Trump in Arabia Saudita, ha parlato all’Assemblea Generale dell’Onu (primo siriano dal 1967), ha incassato i complimenti dell’ex generale David Petraeus (che ai tempi del jihadismo l’aveva messo in galera), è stato da Putin al Cremlino e lungo la via ha incassato la drastica riduzione delle sanzioni che per un decennio hanno affamato il popolo siriano. Nulla ha frenato questa marcia trionfale: non i massacri degli alawiti, non la breve ma sanguinosa guerra con i drusi, non le polemiche con i curdi, e nemmeno le elezioni-farsa di ottobre, costruite per trasformare il suo incarico presidenziale da provvisorio a definitivo e per formare un Parlamento pronto ad approvare la nuova Costituzione, che molti purtroppo prevedono dai toni venati di islamismo.
Alla Casa Bianca, Al-Sharaa ha ottenuto due risultati importanti. Il primo è la sospensione per tre mesi del Caesar Act, la legge che sanziona la Siria e che per essere abolita necessita di un atto del Congresso (cosa che prima o poi avverrà). Il secondo è l’inserimento della Siria nella coalizione anti-Isis: mossa che all’ex qaedista non deve risultare difficile, visto che le due organizzazioni si sono sempre combattute, ma che porta con sé un “riconoscimento” da parte degli Usa. Per parte sua, Trump ha posto le premesse di un progetto di più lungo periodo: attraverso l’accordo di collaborazione militare (che prevede la presenza di soldati Usa in una base vicina a Damasco), avvicinare la Siria all’ingresso negli Accordi di Abramo, cui già partecipano Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco, Sudan e Kazakstan.
Da un punto di vista geopolitico sarebbe un colpo grosso. Considerato che il Libano è ormai un ectoplasma, vorrebbe dire mettere il Levante sotto il controllo degli Usa, garantire l’imprescindibile alleato Israele, isolare l’Iran, tenere alla larga la Russia, allungare un’ombra importante sull’Iraq. Poiché Egitto e Giordania sono da decenni in relazione pacifica con Israele, vorrebbe dire realizzare quel progetto di riscrittura pro-Usa del Medio Oriente che fu invano accarezzato dai neocon all’epoca di George Bush.
E per la Siria? Al-Sharaa sa benissimo di aver ereditato un Paese che sta in piedi per miracolo, semi-distrutto dalla guerra civile, dall’intromissione di una unga serie di Paesi vicini e lontani e dalle sanzioni. La sua unica possibilità è di non farsi nemici e di subire con pazienza quando (ovvero, sempre) non può reagire: si veda il caso dei bombardamenti preventivi condotti da Israele su una Siria che non aveva alzato un dito contro lo Stato ebraico. In cambio, come già detto, ottiene mano libera all’interno contro ogni forma di opposizione e la liberazione dalle sanzioni, con la speranza che la maggiore libertà economica e gli investimenti dall’estero per la ricostruzione facciano risollevare il Paese.
L’altra faccia di questa medaglia, però, è la prospettiva di una Siria a sovranità molto limitata. La Turchia occupa un vasto territorio a Nord e non ha intenzione di ritirarsi. Anzi, nell’ottobre scorso Ankara e Damasco hanno siglato un’intesa che consente alle truppe turche di attaccare i curdi in Siria fino a 30 chilometri dal confine. I curdi controllano l’Est del Paese: sono protetti dagli americani che, per ora con poco successo, li vorrebbero integrati nella nuova Siria. A Sud Israele non solo bombarda ma promuove la secessione dei drusi e ha portato le sue truppe a ridosso di Damasco. A Ovest ci sono le province alawite, tenute a freno dalle baionette dei miliziani di Hayat Tahrir al-Sham. Insomma, Al-Sharaa ha bisogno di alleati potenti per non ridursi al ruolo di sindaco di Damasco. Ma l’aiuto, decisivo, di Trump tutto è tranne che gratuito.
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